Vi è mai capitato, magari in preda alla depressione più nera, di chiedervi chi potesse essere il peggiore regista del cinema italiano e decidere di andare a vedere un suo film? Al sottoscritto è successo e si è ritrovato in una sala in cui si proiettava l’ultimo film di Avati, “Gli amici del bar margherita”.
Già l’inizio è sconvolgente, con una voce fuori campo dal tono agrodolce, tipo melassa andata a male, che secondo l’autore dovrebbe evocare un’atmosfera da tempi mitici, di ascendenza felliniana genere amarcord, o alla Germi di “Amici miei”. Come tutti sanno, l’utilizzo della voce fuori campo è lo strumento preferito dello sceneggiatore principiante (con le dovute eccezioni, naturalmente, che non valgono in questo caso), ma Pupi, si sa, è uno che non rispetta le regole filmiche, forse perché, nonostante 40 film alle spalle, non le conosce ancora molto bene. Seguono alcuni interminabili minuti dedicati all’enumerazione di una sorta di decalogo di valori dei frequentatori del bar margherita, un distillato di finezze comiche che riescono a produrre nel pubblico, per quanto bendisposto, non più di qualche risatina stridula, molto simile ad un rantolo di avvilito sconforto.
Sempre più preda della depressione, uno si chiede se prima o poi il film inizierà veramente, ed ecco che viene accontentato, dopo una ventina di minuti di amenità varie, tra cui anche la citazione del film nel film. Si sa, Avati è un vero autore, con un suo tocco inconfondibile, i cui aspetti più riconoscibili sono la sciatteria e l’assenza di una qualsiasi idea originale.
Comincia la prima storia e siamo già sommersi dall’eterna faccia immobile e immutabile di Diego Abbatantuono, rimasto uguale a se stesso da parecchi decenni, tanto che uno si chiede se si tratti di una maschera di cera, o se non abbia scoperto il segreto dell’eterna, sprecata gioventù. Diego naturalmente è dotato di un suo motto di spirito che ripete fino alla nausea, come un disco che si è incantato: come sanno i veri maestri del cinema, la ripetizione è fonte di comicità.
Il bello è che il film è interpretato anche da fior di attori, tipo Luigi Lo Cascio e Laura Chiatti, che sembrano divertirsi un mondo a dare il peggio di se stessi. Goliardia o sadismo nei confronti del povero spettatore? Lo Cascio, in particolare, si distingue per dar vita ad un personaggio totalmente scombinato, con una risata da iettatore sadico, o da idiota totale, ed è con lui che Avati tocca una delle vette comiche più alte del film. Il nostro, infatti, si dota di un paio di occhiali di quelli da leggenda metropolitana, con cui si riesce a vedere cosa c’è sotto i vestiti delle donne. E Avati, da grandissimo creatore di miracoli filmici, ci fa vedere veramente, attraverso gli occhiali del suo personaggio, un paio di donne nude che passeggiano sotto i portici di Bologna.
Che dico, Bologna? Alla fine, se uno è riuscito a sopravvivere, scopre che anche gli ambienti sono taroccati. Non siamo a Bologna, bensì a Cuneo. Non sarà per caso una vendetta del grande Totò che, indignato per le offese apportate alla musa della commedia, ha spedito finalmente il buon Pupi a fare il militare a Cuneo, sperando che la ferma duri a lungo?
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