"Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità"
di Adriano Gallino.
Roma-Bari, Laterza, 2007 (14 €)
Recensione a cura di Antonio CAPUANO.
C’era una volta la costituzione repubblica e il suo articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Nei fatti, quella costituzione non esiste più, dal momento che il suo primo articolo viene calpestato da quindici anni. Più di tangentopoli, della fine della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, dello scioglimento del Partito Comunista e della nascita del Partito dei Democratici di Sinistra è stata la trasformazione del lavoro da valore a costo, a pura merce, a sancire la nascita della seconda Repubblica, il cui periodo d’incubazione comincia con la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80. Questo giudizio non si trova nell’ultimo libro di Luciano Gallino ma è un giudizio coerente con il suo impianto.
In Il lavoro non è una merce il sociologo torinese ricostruisce il processo che ha trasformato il lavoro in una merce come qualsiasi altra, come le componenti di un auto o il software di un computer. Da una parte i processi di riorganizzazione della produzione capitalistica hanno influito, dall’altra la legislazione sul lavoro li ha assecondati. Gallino spiega che l’attività produttiva è stata riorganizzata secondo due principi: il primo è quello del just in time, del “giusto in tempo”. Secondo questo principio “nessuna materia prima, nessun semilavorato, nessun componente, nessun ausilio o servizio di supporto deve arrivare nel punto fisico in cui deve venire lavorato, o montato, o fornito, se non nel preciso momento in cui potrà essere utilizzato” (p. 28). Il secondo principio invece stabilisce che si produce solo su domanda. Progressivamente, i due principi sono stati applicati anche alla forza lavoro producendo l’attuale condizione di precarietà in cui i lavoratori sono costretti a vivere. Dal momento che quella del lavoro è una voce di costo importante, le imprese si sono chieste “perché non applicare anche alla forza lavoro l’idea che essa venga domandata, e retribuita, soltanto nei momenti in cui produce effettivamente valore” (p. 30). Quella della riduzione del costo sarà stata senz’altro una motivazione, forse anche la più importante. Tuttavia, non va trascurata, a mio parere, un’altra ragione, che Gallino però non menziona: il comando della forza lavoro. Il mondo capitalistico ha voluto affermare che i lavoratori non sono che un’appendice delle macchine e che, come le macchine, sono a completa disposizione del capitale, dei suoi bisogni e dei suoi ritmi. Soprattutto, come le macchine, non si ribellano. In altre parole, il capitale ha voluto ribadire che i lavoratori sono cosa loro, non soggetti autonomi con cui ci si deve confrontare. Li si priva del ruolo di antagonisti, si cancella la contraddizione capitale lavoro.
Gallino smentisce categoricamente che ci sia un qualche legame fra flessibilità e crescita occupazionale. Al riguardo cita un commento al protocollo del luglio 1993 sottoscritto da governo , sindacati e associazioni imprenditoriali di Massimo D’Antona e che vale la pensa riportare: “E’ un programma che ha il limite evidente di ripercorrere sentieri battuti. L’idea che quote aggiuntive di flessibilità nelle tipologie dei posti di lavoro possano produrre occupazione è palesemente obsoleta. Il mercato del lavoro è ormai in Italia flessibilizzato in misura più che adeguata alle esigenze effettive delle imprese e non vi sono margini ulteriori per creare convenienze nelle assunzioni” (p. 56). Vallo a spiegare a quelli che sostengono che certe posizioni sono antiquate, residui ideologici. Dopodiché Gallino ripercorre le tappe legislative che hanno condotto alla trasformazione del lavoro in una merce come un’altra. La prima tappa è individuata appunto nel protocollo del 23 luglio 1993 siglato da governo e parti sociali. La seconda tappa è stata la legge 24 giugno 1997, meglio conosciuta come “Pacchetto Treu”. Gli ultimi due passi che hanno portato a compimento sul piano del diritto quello che si era verificato nell’organizzazione del lavoro sono stati, invece, il decreto legislativo 6 settembre 2001 e la legge 30/2003. L’effetto che si è ottenuto è che all’organizzazione sociale si è sempre di più chiesto di adeguarsi, di assomigliare all’organizzazione di un’impresa. I lavoratori però sono uomini e donne in carne ed ossa, con i loro bisogni, i loro desideri e le loro aspirazioni, non ingranaggi del processo produttivo.
Negli ultimi due capitoli Gallino prende in esame i rimedi. Diffida del tentativo di agire sugli effetti senza agire sulle cause pur riconoscendo che fare la prima cosa sia meglio che non fare niente. Per agire sugli effetti Gallino ipotizza una serie strumenti legislativi, sia a livello internazionale che nazionale, che riaffermino che il lavoro non è una merce come un’altra. Non discuto la bontà dei provvedimenti immaginati da Gallino. Quel che però mi pare si possa dire è che la legislazione sul lavoro segue i processi di riorganizzazione capitalistica che si verificano, poche volte li determina.
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