La fuga della Fiat: paradigma di un'Italia in ginocchio...

Fine della storia. La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) è defunta e - come capisce chiunque non voglia ingannare se stesso o il prossimo - non soltanto nell'acronimo. Fiat Chrysler Automobiles (Fca) il nuovo gruppo sortito dall'unione della casa torinese e di quella di Detroit ha in Italia solo una modesta dependance produttiva, aree di grande cubatura che ospitano stabilimenti in gran parte dismessi, migliaia di operai in cassa integrazione, nessun serio progetto per il futuro.  Il board strategico è già migrato a Detroit, insieme al know how nostrano, preziosa merce di scambio spesa per entrare in Chrysler senza che la Famiglia dovesse scucire un soldo bucato. Per la sede legale è stata scelta Amsterdam, al fine di sfruttare il maggior peso concesso nel voto in assemblea ai soci che abbiano la maggiore quota di una società. Così, con meno del 30 per cento della nuova Fiat, gli Agnelli potranno controllare la società, cosa che con le leggi italiane sull'Opa non sarebbe possibile. La sede fiscale verrà invece "opportunamente" allocata a Londra, operazione che si spiega con i vantaggi che il sitema inglese accorda a chi matura dividendi all'estero. L'azienda ha provato a dissipare questa ulteriore ombra su un gruppo industriale che ha totalmente perso le proprie radici nazionali e che dopo avere succhiato sino all'osso risorse materiali ed umane dall'Italia ora trova la scappatoia per evadere anche le tasse dovute. “Questa scelta non avrà effetti sull’imposizione fiscale cui continueranno ad essere soggette le società del gruppo nei vari Paesi in cui svolgeranno le loro attività”, ha provato a controbattere il Lingotto, ma non la pensano così neanche i fiscalisti britannici.
Infine, scelta del tutto scontata, la quotazione in borsa sarà sulla piazza newyorkese, a Wall Street, forse già dal 1° ottobre. A  Milano rimarrà la quotazione secondaria del gruppo. E' sul mercato americano che Fca andrà a drenare capitali. Ed è lì che restituirà qualcosa, avendo di fronte un governo che forse non si limiterà a fare da zerbino.
E' chiaro come il sole che le produzioni e l'occupazione in Italia rappresentano per il nuovo player internazionale l'ultima delle preoccupazioni. Lo hanno perfettamente compreso anche gli osservatori internazionali. ”Arrivederci Italia!”, titola il quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Il giornale racconta che in Italia “è scoppiato il panico per il timore che parte di Fiat possa essere trasferita all’estero”, anche se “il passaggio è in corso già da tempo: dal 1990 il numero delle vetture prodotte in Italia è crollato da 1,9 milioni ad appena 400mila nel 2012″.
Sfidando il ridicolo, Enrico Letta, e lui solo, si rallegra. Va raccontando che un gruppo a "vocazione globale" come Fca potrà fare gli investimenti necessari a garantire il lavoro anche in Italia. E finge di non accorgersi che il piatto è vuoto. Come il il più genuflesso dei servi, prende ceffoni e ringrazia.
P.s.: Pardon, ho commesso una grave dimenticanza a cui pongo subito riparo. Fra chi esulta di fronte a questo nuovo, esaltante successo del gotha dell'italica borghesia industriale non poteva mancare Piero Fassino che si è in queste ore sperticato in un'appassionata difesa della "lungimiranza" con cui l'azienda di Torino e quella di Detroit, fondendosi, si sono trasformate da brutti anatroccoli quali erano in uno splendido cigno. Ma l'attuale sindaco di Torino ha dalla sua tutta una gloriosa storia che testimonia dell'indistruttibile sodalizio che lo ha sempre legato, in tutte le stagioni, ai padroni della Fiat.
C'è un prequel famoso, nel curriculum dell'ex-ex-ex-comunista, ora dirigente del Pd, che risulta certo ancor oggi indimenticabile per gli operai della Fiat che nel 1980 combatterono una straordinaria - e ahinoi perdente - battaglia di libertà contro l'impresa che incarnava la riscossa del capitale contro le conquiste operaie che lungo il decennio precedente avevano cambiato il volto dell'Italia. Ebbene, anche allora Fassino sosteneva che la Fiat avesse perfettamente ragione e che "chi si opponeva non era altro che un demagogo romantico in lotta contro la modernità", ovvero mercato a gogò e globalizzazione. Come si può vedere, una coerenza adamantina che descrive la drammatica parabola del movimento operaio e la corsa a ritroso della democrazia italiana.
Era il 5 settembre del 1980, quando la Fiat annunciava di avere 24.000 lavoratori in esubero. Di questi almeno 13/14.000 avrebbero dovuto essere licenziati. Iniziavano così i trentacinque giorni di lotta alla Fiat. Chi stava in fabbrica viveva direttamente l'aspetto politico dell'offensiva Fiat e delle sue conseguenze, in particolare l'inevitabile azzeramento del potere dei lavoratori nel caso di una sconfitta. Non si arrivò alle lettere di licenziamento, perché il 27 settembre cadde il governo. Poco dopo la Fiat annunciò il rinvio della procedura dei licenziamenti e la messa in cassa integrazione a zero ore per tre mesi di circa 24.000 lavoratori a partire dal 6 ottobre. Per gli operai della Fiat fu sufficiente scorrere i nominativi degli elenchi affissi ai cancelli, per capire che l'azienda voleva decapitare la presenza dei delegati in fabbrica, quel tessuto di avanguardie che erano la base del "contropotere" nei vari reparti. Come risposta alle liste di espulsione per i lavoratori, decise unilateralmente dalla Fiat, il Consiglio di fabbrica di Mirafiori approvò una mozione che dava il via al presidio di tutti i cancelli e chiedeva alle confederazioni di proclamare uno sciopero generale. Dai primi giorni di ottobre davanti agli stabilimenti Fiat, si animò, e a poco a poco prese forma, una nuova realtà sociale: il popolo dei cancelli.
Il 14 ottobre il Coordinamento dei capi e intermedi Fiat convocò un'assemblea al Teatro Nuovo di Torino. La Fiat aveva fatto le cose in grande, aveva mobilitato i dirigenti di tutto il gruppo, a loro volta questi avevano impartito ordini ai capi e a catena questi avevano telefonato a casa ai lavoratori più moderati e opportunisti. Poi avevano organizzato pullman, pulmini e auto per raccogliere tutti i disponibili e predisposto tanti bei cartelli che invocavano il diritto di lavorare. Dal Teatro Nuovo uscì un corteo silenzioso che percorse le vie cittadine passando alla storia come la "marcia dei 40.000". Anche se non erano quarantamila, ma molti di meno, l'impatto fu evidente. Ancora oggi rimaniamo stupiti osservando le foto di quei marciatori. Fu chiamata infatti marcia, non corteo o manifestazione, termini che si addicevano ai lavoratori. Abituati ai cortei colorati, rumorosi e rombanti di slogan degli operai e delle operaie della Fiat, i "40 mila" marciatori si distinsero per il loro silenzio, per i pochi cartelli graficamente ben scritti, per il loro procedere ordinato e intruppato per le vie del centro, per il loro modo diverso di vestire: giacche, cravatte, soprabiti.
L'indomani la gente dei picchetti venne a sapere che era stata raggiunta una ipotesi di accordo tra sindacati e dirigenza. Nel pomeriggio fu convocata l'assemblea di tutti delegati Fiat con i segretari nazionali al Cinema Smeraldo, nella periferia di Torino. In quell'assemblea si ebbe immediatamente sentore della sconfitta che quell'accordo segnava. Giovanni Falcone, delegato Fiom della Carrozzeria, pronunciò una sorta di testamento politico, valido per un'intera generazione di avanguardie: "Ci sono degli accordi che non ti fanno fare dei passi avanti, che magari ti fermano sulle posizioni che hai acquisito. Dopo hai difficoltà, e riprendi il cammino. Ma questo è sicuramente un accordo che ci fa fare molti passi indietro". Falcone proseguiva nel suo intervento, quando per ragioni di tempo venne richiamato dalla presidenza: "Non ti preoccupare, compagno. Ho anche il diritto, dopo 12 anni mi cacciano fuori, concedetemi almeno di parlare ancora, perché io credo..., credo che la possibilità come operaio Fiat, come delegato Fiat, non ce l'avrò mai più. Almeno la soddisfazione di aver chiuso in bellezza, e sono contento di tutte le lotte che ho fatto, al di là del fatto che il padrone non mi riprenda più".
Il 16 ottobre al mattino furono convocate le assemblee operaie. Si votava sull'accordo appena firmato a Roma. Se nelle assemblee del mattino il risultato era perlomeno incerto, ma con una massiccia presenza di voti contrari, nelle assemblee del pomeriggio i no prevalsero in modo netto. Nonostante questo i vertici sindacali dissero che l'accordo era stato approvato a larga maggioranza dagli operai, dimostrando la loro volontà di chiudere quella partita iniziata un decennio prima.
Subito dopo la conclusione della lotta iniziarono nel movimento operaio le rese dei conti e fu probabilmente quel momento che segnò l'inizio della fine del sindacato dei consigli e della Flm.
Dino Greco.

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