Italia, la crisi ha bruciato un milione di posti di lavoro. Un altro mezzo milione nel limbo della cassa integrazione ...


In cinque anni di crisi in Italia e' andato perso oltre un milione di posti di lavoro. E a questi vanno aggiunti, come documenta la Cgil, un altro mezzo milione in cassa integrazione. E’ questo il vero volto della crisi. Dal 2008 al 2013 nel nostro Paese gli occupati sono scesi da 25,1 milioni a 24,1 milioni con un calo di oltre 1 milione di unita' (-4,32%). Nell'area euro l'occupazione e' risultata in caduta del 3,25% (-4,9milioni) da 150,8 milioni a 145,9 milioni. Unica eccezione e' la Germania (+3,25%) che ha dato impiego a 1,8 milioni di persone in piu' (da 40,7 milioni a 42,2 milioni).
Il rapporto del Centro studi Unimpresa ha analizzato l'andamento del mercato del lavoro in Italia e nell'area euro dal quarto trimestre 2008 al quarto trimestre 2013. L'analisi di Unimpresa - basata su dati Banca d'Italia, Eurostat e Istat - mette in luce che nell'area euro (Unione europea a 18) l'occupazione e' calata complessivamente da 150,8 milioni a 145,9 milioni: i posti di lavoro in meno pertanto sono 4,9 milioni (-3,25%). Dentro i nostri confini, in media si sono persi 200mila posti di lavoro l'anno. Gli occupati erano 25,1 milioni a dicembre 2008 mentre gia' nel 2009 (quarto trimestre) erano calati a quota 24,1 milioni. Ancora una diminuzione nel 2010 (quarto trimestre) a 24 milioni e 676mila unita', ancora giu' a fine 2011 a 24 milioni e 575mila unita' e in calo dopo altri dodici mesi (dicembre 2012) con 24 milioni e 520mila unita' occupate.
L'ultima istantanea, quarto trimestre 2013, restituisce una fotografia a tinte fosche: i posti di lavoro sono 24,1 milioni e rispetto all'inizio della crisi (quarto trimestre 2008) sono andati persi, dunque, 1 milione e 86mila posti di lavoro con un calo percentuale pari al 4,32%.
"La situazione - commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi - e' da allarme rosso. L'emorragia di posti di lavoro si estende a vista d'occhio giorno dopo giorno e non si vede una via d'uscita. Le imprese sono stremate e il fallimento e' inevitabile. Dopo le elezioni europee, il governo di Matteo Renzi deve andare avanti a testa bassa; poniamo ancora una volta l'esigenza di varare riforme serie, volte a dare speranza agli imprenditori e pure alle famiglie. Per rimettere in moto l'economia, e quindi per far ripartire l'occupazione, dando alle aziende la possibilita' di creare nuovi posti di lavoro, si deve dare impulso al credito e vanno tagliate le tasse". Secondo Longobardi "senza la liquidita' delle banche e senza un abbattimento drastico della pressione fiscale il nostro Paese non ha futuro. In questo quadro drammatico, abbiamo assistito finora purtroppo a una grande irresponsabilita' dei partiti, specie quelli della maggioranza chiamati a sostenere il vecchio esecutivo, che si sono divisi su questioni minori invece di pensare a salvare il Paese". 
fabrizio salvatori.

Torino città aperta...



Torino città chiusa. Blin­data. Ser­rata in un dispo­si­tivo mili­tare sof­fo­cante, che aveva sigil­lato die­tro un muro di armati ogni strada late­rale, ogni svin­colo, ogni piazza. Il movi­mento No Tav l’ha aperta «come una sca­tola di tonno», con la pro­pria forza tran­quilla. Un cor­teo immenso, sor­ri­dente, ami­che­vole è pene­trato al suo interno scio­glien­dola e con­qui­stan­dola alle pro­prie ragioni. Tra­sci­nando con sé gli spet­ta­tori. Mostrando un volto che la Valle già cono­sceva – le fami­glie con i bam­bini in testa, la banda che suona le musi­che delle sagre mesco­late a quelle par­ti­giane, gli anziani con i nipoti, i gruppi di paese e di fra­zione -, ma che la città in parte igno­rava, acce­cata da un’informazione tos­sica, che ogni volta mani­pola e nasconde. Il monu­men­tale tri­bu­nale vuoto, asso­lu­ta­mente vuoto, cir­con­dato dai blin­dati e dalle grate di ferro anco­rate col cemento al suolo come la zona rossa di Genova nel 2001 — quasi lì den­tro ci fosse l’oggetto del desi­de­rio della folla che gli sfi­lava accanto -, è il sim­bolo dell’ottusità del potere. Della sua inca­pa­cità di capire e pen­sare, come accade, appunto, a ogni potere, quando perde la ragione del pro­prio agire, e resta appeso al pro­prio appa­rato della forza senza giu­sti­zia (che si rivela, appunto, violenza).
Guar­dando quella folla mul­ti­co­lore, che sfi­lava serena, a volto sco­perto, davanti ai cor­doni cupi, cata­fratti, chiusi die­tro i pro­pri scudi, che sigil­la­vano il per­corso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, cara­bi­nieri, poli­zia, guar­dia di finanza) era dif­fi­cile imma­gi­nare come sui primi fosse pos­si­bile disten­dere l’ombra fosca del ter­ro­ri­smo e sui secondi appic­ci­care l’etichetta della lega­lità. Ai primi la vio­lenza, agli altri la giu­sti­zia. Piut­to­sto, ver­rebbe da dire, il contrario.
Il Movi­mento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una sem­plice mar­cia ha strap­pato di mano ai pro­pri nemici ogni ele­mento di cre­di­bi­lità per soste­nere l’assurda teo­ria – ma sarebbe meglio chia­marlo teo­rema – che tenta di ricon­fi­gu­rare le azioni di pro­te­sta di quella popo­la­zione sotto il segno cruento dell’accusa di ter­ro­ri­smo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argo­menti di chi, per soste­nere una causa razio­nal­mente inso­ste­ni­bile, è costretto a ridurla a que­stione di ordine pub­blico, in cui, come è noto, chi ha il man­ga­nello dalla parte del manico decide.
Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta con­tro un mate­riale resi­stente e intel­li­gente che sarà dav­vero dif­fi­cile ignorare.
Marco Revelli.


Terra rubata...



“Terra rubata”, dibattito di Legambiente con i candidati alle elezioni regionali ed europee, giovedì 8 maggio in Provincia a Torino

Terra rubata: fermiamo il consumo di suolo e rigeneriamo le città”: è il titolo dell’incontro organizzato da Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta e che si svolge giovedì 8 maggio, dalle ore 16,30 alle 19, nella Sala Stemmi del Palazzo della Provincia di Torino, in corso Inghilterra 7. In occasione della campagna nazionale “Stop al consumo di suolo”, Legambiente intende chiedere ai candidati alle elezioni regionali ed europee la loro opinione sul tema della rigenerazione urbana, come risposta alla cementificazione incontrollata del territorio, all’emergenza abitativa ed alla necessità di ridurre i consumi energetici, valorizzando le fonti rinnovabili. Regione e Provincia presenteranno dati e riflessioni sul consumo di suolo in Piemonte. All’incontro intervengono Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente; Flavia Bianchi, responsabile Urbanistica di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta; Paolo Foietta, del settore Pianificazione Territoriale della Provincia di Torino; Fabio Dogana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta; Andrea Ballocca, del Csi Piemonte; Giovanni Paludi, del settore Pianificazione Territoriale e Paesaggistica della Regione Piemonte; Sergio Contini, segretario del Sunia, Sindacato unitario nazionale inquilini assegnatari di Torino e Giovanni Baratta, segretario del Sicet, Sindacato inquilini casa e territorio di Torino. Al dibattito sono invitati anche cittadini, amministratori locali ed associazioni.   
Renato Dutto

Su Waste End ...

In relazione all’articolo pubblicati su “Chivasso News” relativo al cosiddetto progetto “Waste End”  corre l’obbligo di chiarire che tale articolo non è stato  condiviso né sottoscritto dalla nostra forza politica, i Progressisti, costituita da Lista Civica Chivasso Futura e dal Partito della Rifondazione Comunista.
Cogliamo quindi l’occasione per esprimere la nostra posizione sul punto, chiarendo che quanto SMC ha proposto contiene alcuni aspetti estremamente problematici, che se non saranno risolti mettono in dubbio, almeno per quanto ci riguarda, l’intero progetto.
Il primo dubbio è relativo alla richiesta di ampliamento della volumetria della discarica dichiarato in un milione di metri cubi. Tale richiesta non è giustificata dalle necessità degli impianti che si vogliono costruire in un territorio che ha già ricevuto quattro milioni e trecentomila metri cubi, con un aumento del 25% rispetto al previsto. Definire questo aumento un operazione di sistemazione degli avvallamenti tra una vasca e l’altra vuol dire sviare dalla realtà le considerazioni sull’aumento di volumetria, considerata la quantità di rifiuti che verrebbero allocati.
Facciamo inoltre fatica a comprendere come un progetto che viene presentato come una struttura all’avanguardia e che punta alle migliori tecnologie sia impossibile senza una discarica, impianto definito qualche giorno fa, nel corso di un convegno sul tema dei rifiuti svoltosi a Torino per conto dell’AtoR, “un sistema antiquato dal quale non riusciamo ad uscire”, dal proprietario di SMC, il Dott. Pietro Colucci.
Delle due l’una: o la discarica può essere discussa, visto che è un sistema antiquato e il progetto si pone invece come all’avanguardia, o la discarica, che prevede una richiesta di conferimento superiore alle necessità degli impianti è il cuore del progetto A discapito delle pretese di innovazione e di avanguardia. In ogni caso la nostra posizione è di ferma contrarietà ad un utilizzo ed ampliamento volumetrico della discarica esistente.
Il secondo punto da chiarire è relativo alla provenienza deli materiali. Tra le linee guida della commissione Europea relative al trattamento del rifiuto, assieme alle quattro R (riuso, recupero, riciclo, riduzione) esiste anche quella della territorialità nel trattamento dei rifiuti. La Territorialità è estremamente importante sia per far assumere ai produttori la responsabilità e i costi del trattamento del rifiuto, sia per evitare che nel trasporto si inseriscano e trovino spazi le organizzazioni criminali, come spesso, anche a Chivasso, è successo.
Ora la mancanza di progetti veri e reali impedisce di capire da dove e quale sarebbe il bacino coinvolto nell’impiantistica e nella discarica. Fino a quando non saranno presentati i progetti qualsiasi discussione è impossibile o sarebbe ideologica. Lo sarebbe il no, detto solo come riflesso condizionato, ma anche e soprattutto il si. Un si a prescindere che lascia spazio a qualsiasi speculazione, a qualsiasi illazione.
E’ quindi necessario che SMC fornisca i progetti degli impianti, con indicati i quantitativi di materiale previsti, al fine di comprendere come e da dove provengono i flussi di materiale. E’ chiaro che l’operazione deve essere fatta nel rispetto della direttiva europea di  prossimità, che è, per quanto ci riguarda, uno dei principi fondamentali sul quale appoggiare qualsiasi intervento.La presentazione dei progetti è necessaria anche per poter effettuare una valutazione di impatto ambientale, indispensabile per comprendere l’impatto dell’operazione sul nostro territorio. Ricordiamo che il programma elettorale che la maggioranza ha sottoscritto l’impegno a non autorizzare impianti ad impatto ambientale negativo, e che questo non può essere determinato senza uno studio serio ed approfondito su più livelli dell’impiantistica. Fino a quando questo studio non sarà effettuato, da tecnici di fiducia di tutti e senza costi per l’amministrazione o per altri soggetti coinvolti, nessun assenso all’operazione può esistere, almeno da parte nostra.
Per concludere auspichiamo che sia possibile, nel rispetto delle opinioni e delle posizioni di tutti, un confronto serio e trasparente, su un progetto che va ben oltre questa amministrazione e riguarda il futuro della nostra città. Per quanto ci riguarda noi, come Progressisti, forza di maggioranza di questa amministrazione, vogliamo continuare a rispettare il programma presentato agli elettori, sul quale abbiamo ricevuto il consenso ed il mandato a governare questa città.
Per i Progressisti:
Maria Paola Cena – Chivasso Futura
Massimo Zesi –Partito della Rifondazione Comunista.

Era giunta l’ora di resistere,era giunta l’ora di essere uomini...




● Durante le celebrazioni chivassesi della Festa della Liberazione, venerdì 25 aprile 2014 si sono svolte le orazioni ufficiali nella sala conferenze di Palazzo Einaudi. Il sindaco chivassese Libero Ciuffreda ha annunciato l’avvio di un gemellaggio culturale con il Comune di Ventotene, legando la Carta di Chivasso al Manifesto di Venetotene, anch’esso un documento federalista. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’orazione ufficiale dell’Anpi di Chivasso, tenuta dal giornalista Renato Dutto.



Gentile Sindaco, Autorità civili, militari, religiose e scolastiche, Valorosi Partigiani, Antifascisti e Gentili studenti e cittadini



Apprendo con grande piacere l’annuncio del sindaco di Chivasso, dottor Libero Ciuffreda, del gemellaggio che verrà avviatro con l’siola di Ventotene, dove nel 1941 venne redatto un documento federalista che preconizzava l’Unione dei Paesi Europei, il Manifesto di Ventotene. Un’isola che è stata pure luogo di confino, durante il tragico ventennio fascista, di politica del calibro di Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Umberto Terracino e Giovanni Longo. Furono proprio tre confinati politici, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, a redarre il Manifesto di Ventotene.

In questa orazione dell’Anpi, nel giorno della Liberazione, è necessario ricordare che guerra e fascismo hanno rappresentato un tragico binomio, che sconvolse prima l’Europa e poi il mondo intero. Milioni di morti e distruzioni apocalittiche, a causa di una feroce follia innescata da due dittatori: Hitler e Mussolini. 

La Germania, dopo aver annesso l’Austria, conquistato la Boemia e sottomesso la Slovacchia, nel settembre 1939 invase la Polonia. Un’aggressione che provocò la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra e l’esplosione della seconda guerra mondiale.  Quando nella primavera del ’40 l’esercito tedesco sfondò le difese francesi, anche Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: voleva avere dei “morti da giocarsi sul tavolo della pace”, avviando anche per l’ Italia una tragica avventura che seminò morte e distruzioni. Il primo atto della tragedia si chiuse il 25 luglio del ’43, con la caduta di Mussolini.

Il secondo atto riprese con l’8 settembre quando Badoglio, nomintato in sostituzione del Duce, firmò l’armistizio con gli alleati e le truppe naziste occuparono il centro-nord, per tentare di bloccare l’avanzata degli alleati.

È soprattutto in questa fase che l’eroico contributo del movimento partigiano diventò essenziale per la liberazione dell’Italia.

Le sofferenze, le battaglie, la fame, le torture, le morti che subirono i partigiani consentirono al nostro Paese di riscattarsi soprattutto moralmente e di essere protagonisti della lotta per l’autodeterminazione e per la cacciata dei fascisti e degli invasori nazisti.

Una data importante, dunque, quella del 25 aprile, che venne scelta, il 22 aprile 1946, con un Decreto legislativo luogotenenziale, per “la celebrazione della totale Liberazione del territorio italiano, dichiarandola festa nazionale”. Una scelta convenzionale, perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della Liberazione di Milano e di Torino, Entro il 1° maggio, poi, tutta l’Italia settentrionale venne liberata: Bologna il 21 aprile; Genova il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.

Gli italiani riacquistarono la libertà, ma il Paese era stato distrutto da cinque anni di guerra e da venti anni di dittatura fascista. Simbolicamente, il 25 aprile rappresenta dunque l’avvio di un percorso storico che proseguì con il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che vide la vittoria della Repubblica sulla Monarchia e con la promulgazione della Costituzione.       

Malgrado sia una data importante, con il trascorrere degli anni dall’aprile 1945, il rischio principale che si corre quando si svolgono le commemorazioni del giorno della Liberazione è di scadere nella retorica celebrativa. Lo ricordai nel 2003, allorchè fui chiamato dall’allora presidente Anpi, il compianto partigiano Eugenio Banfo, a tenere l’orazione pubblica del 25 aprile, in piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lo ripeto oggi, 11 anni dopo, chiamato allo stesso non facile compito dal pesidente Anpi Vinico Milani, nonché segretario dell’Anpi provinciale di Torino.

Per questioni biologiche  (parliamo di fatti accaduti 69 anni fa) i protagonisti di quei giorni sono purtroppo ormai pochissimi fa noi. Una situazione di fatto che l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia ha affrontato negli ultimi anni, dandosi l’obiettivo di coinvolgere maggiormente i giovani, con iniziative di tipo storico e documentativo, ed anche interessandoli ai racconti dei padri, che a loro volta fecero tramandare i fatti di quegli anni da chi non è più tra noi. A questo proposito, voglio qui ridordare le ultime due gravi perdite dell’Anpi chivassese: “Notu” Costamagna e “Pippo” (Pierino Emanuel).

Non sono un tifoso di date a memoria. Ritengo però che sarebbe cosa buona e giusta che in tutte le scuole italiane si insegnassero soltanto tre date, quelle che ho appena citato: una il 25 luglio 1943, la caduta del Duce; l’altra è il 25 aprile 1945 e la terza l’8 settembre 1943, il giorno dell’Armistizio e dello sbandamento dei nostri militari. Non tante date, ma soltanto tre. Purtroppo, spesso tanti di noi (non penso solo chi parla) abbiamo modo di verificare che questo non avviene.

Per la Resistenza, invece, non c’è una data precisa che stabilisca quando ebbe iniziò. Come scrisse Piero Calamandrei, semplicemente, «era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». La lotta partigiana in Italia fu caratterizzata dall’impegno unitario di tutto il fronte delle opposizioni che il fascismo con la violenza e la persecuzione aveva tentato di stroncare con ogni mezzo. Cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici, trovarono intesa ideale e organizzativa sotto il comune obiettivo della democrazia e della libertà. È in quella scelta che si trovano le radici dell’Italia repubblicana. È grazie a quella scelta, infatti, che venne a costituirsi il Comitato di Liberazione nazionale che dopo la cacciata dei nazisti e del fascisti fu la culla per il primo parlamento democratico e la fucina feconda della nostra Costituzione.

Molti partigiani non avevano partito, erano semplici cittadini sentirono l’obbligo morale di combattere, un dovere verso il loro Paese, per cacciare l’invasore straniero. Erano uomini provenienti da esperienze diverse: studenti, lavoratori, vecchi antifascisti: in molti non si erano mai visti prima di prendere la via della montagna. Si sottrassero alla richiesta di collaborazione con i tedeschi, che minacciavano la deportazione o la fucilazione per chi non si arruolasse. A molti non rimase quindi che la scelta di scappare in montagna o sulle colline per unirsi alle bande partigiane e combattere per la libertà. Il loro fu un apporto anche morale, di riscatto del popolo italiano, appurato che l’apporto angloamericano fu determinante per liberare il nostro Paese dall’invasore nazifascista. Come poi non ricordare l’importante ruolo delle donne nella Resistenza, delle staffiste che rischiavano la vita ogni giorno per portare viveri e fondamentali informazioni ai partigiani?

È bene ricordare in questa sede che Chivasso ed i chivassesi diedero un importante contributo di militanza ed anche purtroppo di vittime alla lotta partigiana. In questo contesto si inserisce la fucilazione, avvenuta a Caluso, del partigiano chivassese Donato Bottero, con altri 17, avvenuta il 7 aprile 1944, ad opera dei fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana. Poi l’impiccagione di altri cinque partigiani e la fucilazione, a Zubiena, di Aldo Lusano ed Eugenio Bisattini, da parte del battaglione San Marco di Valerio Borghese, oltre alle uccisionio dei partigiani Onorato Cambursano, Giacomo Curreno e Boris Bradac, al quale è intitolata la sezione Anpi di Chivasso. I dati ufficiali parlano per Chivasso di almeno 37 caduti partigiani, oltre a 28 militaru deceduti nei campi di internamento nazisti od uccisi dai tedeschi. Vi furono anche deportati ebrei di Chivasso, che morirono nei campi di internamento nazisti (da Arrigo Levi ad Abramo e Rosa Segre). Come non ricordare poi le 47 incursioni aeree su Chivasso (fra bombardamenti e mitragliamenti), che causarono 127 morti, 14 invalidi e 375 feriti (senza contare le vittime soprese dalle incursioni aeree sulle strade provinciali e sull’autostrada).

Questi sono i dati del tributo di sangue versato dai chivassesi. Questa è la storia che si deve conoscere, senza scadere nella retorica, ma nello stesso tempo respingendo in modo fermo ogni tentativo di “svalutazione” della Resistenza e del ruolo della lotta partigiana contro il fascismo.

Dopo l’8 settembre 1943, tedeschi occuparono in pochi giorni il Paese, disarmando e catturando in Italia e all’estero deportandoli poi nei lager, 700 mila soldati italiani, lasciati senza ordini e direttive dal Re Vittorio Emanuele III, dal governo diretto dal Maresciallo Badoglio e dallo Stato Maggiore. Non si trattò, per l'Italia, di continuare una guerra perduta, bensì di cominciarne una nuova, una guerra di Liberazione sia dall’occupante tedesco che dai fascisti repubblichini. Si stima che i caduti per la Resistenza italiana sarebbero stati complessivamente 45 mila. Molti furono gli appellativi spregiativi usati dai fascisti e dai tedeschi per definirli: disertori, ribelli, fuori legge, sino addirittura “banditi”. Erano invece semplicemento dei partigiani, combattenti per la libertà, la pace, la giustizia e la democrazia.

Gente dalla cui lotta è nata una Costituzione i cui principi fondamentali sono importanti quanto in buona parte inapplicati. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, ma la contraddizione è forte se si pensa che la principale emergenza di questi ultimi cinque anni di grave crisi economica è proprio l’occupazione. Pochi giorni fa, poi, l’Istat ci ha raccontato che in Italia ci sono 1 milione e 130 mila nuclei familiari senza alcun reddito. Significa che milioni di persone sopravvivono senza guadagnare nemmeno un euro al mese. Cosa dire poi dell’art. 3, che sembra musica per le orecchie di chi ha combattuto per la giustizia:Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distintizione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Sarebbe molto interessante chiedere ai giovani se a loro avviso questo bellissimo articolo 3 è applicato oggi in Italia, oppure no. Come si potrebbe loro chiedere se è rispettato l’articolo 11, quello sull’Italia che ripudia la guerra come strumenti di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Potremmo proseguire a lungo, decantando i primi 11 articoli della nostra Costituzione, che va certamente difesa, e che padre David Maria Turoldo definiva il “Vangelo della Repubblica”. L’assetto istituzionale della Costituzione deve, pure esso, essere difeso, rispettando la centralità del Parlamento, che rappresenta i cittadini e che efettua il controllo sull’attività del Governo. L’Anpi nazionale ed anche l’Anpi provinciale di Torino sono infatti molto preoccupati ed allarmati in merito alla recente proposta del Governo di riformare gli organi legislativi previsti dalla Costizione. Una riforma che, combinata con gli efftti di una legge elettorale come quella approvata dalla Camera, mira ad irrobustire i poteri del Presidente del Cosniglio e del Governo, contribuendo ad una ulteriore e grave riduzione dei margini di democrazia, che già da tempo subiscono una lenta ma progressiva erosione. La Costituzione, nata dalla Resistenza, ha subito negli anni diversi tentativi di modifica, troppo spesso caratterizzati da contingenti urgenze politiche, che hanno determinato profonde incongruenze e squilibri tra i principi in essa sanciti. L’Anpi è consapevole della necessità di aggiornare il testo costituzionale, per esempio per superare il bicameralismo pefetto, ma rispettando la centralità del Parlamento.



Per concludere vorrei leggere alcune frasi di un diciottenne che venne fucilato dai repubblichini il 4 maggio 1944, Giordano Cavestro, che morì a Bardi, in quel di Parma, ma che avrebbe potuto perdere la vita in qualsiasi luogo di battaglia nel nord Italia da liberare: “Se vivrete, toccherà a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio». Tutti noi dovremmo chiederci se veramente è servito da esempio il sacrificio di questo e di altri partigiani. Quando pensiamo alla nostra Italia devastata dalla speculazione edilizia, all’ambiente violentato dagli inquinatori, alle alluvioni provocate dall’incuria, quando pensiamo ai 3 milioni di disoccupati, ai governi inadeguati che hanno gestito l’Italia senza affrontare i problemi. Quando pensiamo alle ingiustizie come quella di ieri, 24 aprile, con la sentenza sulla Thyssen Krupp che tanto ha amareggiato i familiari delle vittime. Oppure se pensiamo ai cittadini che non partecipano alla vita pubblica, che non si interessano dei problemi di tutti, allora potremmo essere indotti a dire che il sacrificio dei partigiani non è servito.

Bisogna però continuare a lavorare per fare in modo che accada di nuovo come nel 1943, quando di fronte ad un’Italia in ginocchio tanti giovani si misero in gioco per migliorare il proprio futuro, risciando la vita, salendo in montagna o sulle colline, con la fame, il freddo, la paura, male armati ed equipaggiati, con un fazzoletto al collo rosso per i garibaldini, verde per chi era di Giustizia e Libertà e celeste per le forze autonome.

Oggi la Resistenza si fa e si deve fare tutti i giorni, difendendo i diritti, combattendo la xenofobia e ribattendo a chi sostiene che, in fini dei conti, c’è stato un primo “fascismo buono”, anche se era quello dell’olio di ricino.

Il compianto partigiano Eugenio Banfo, quando sentiva affermare da alcune parti politiche che gli eccidi nazifascisti sarebbero stati provocati dalle azioni degli stessi partigiani, rispondeva: “Queste erano le medesime cose che dicevano i fascisti in quell’epoca”. Il valore di queste manifestazioni ed il mantenimento della memoria (che non è solo lucidare le lapidi e posare i fiori, mansione pur essa importante) rappresentano dunque funzioni fondamentali a cui l’Anpi assolve. È necessario però che tutti i convinti  antifascisti non abbassino mai la guardia, coinvolgendo ed appassionando le nuove leve.



W il 25 Aprile. W la Liberazione. 

Verso la svolta autoritaria...un importante Appello...

Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali.
Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.
Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato.
Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone.
 

Primi firmatari:
Nadia Urbinati
Gustavo Zagrebelsky
Sandra Bonsanti
Stefano Rodotà
Gino Strada.