Era giunta l’ora di resistere,era giunta l’ora di essere uomini...




● Durante le celebrazioni chivassesi della Festa della Liberazione, venerdì 25 aprile 2014 si sono svolte le orazioni ufficiali nella sala conferenze di Palazzo Einaudi. Il sindaco chivassese Libero Ciuffreda ha annunciato l’avvio di un gemellaggio culturale con il Comune di Ventotene, legando la Carta di Chivasso al Manifesto di Venetotene, anch’esso un documento federalista. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’orazione ufficiale dell’Anpi di Chivasso, tenuta dal giornalista Renato Dutto.



Gentile Sindaco, Autorità civili, militari, religiose e scolastiche, Valorosi Partigiani, Antifascisti e Gentili studenti e cittadini



Apprendo con grande piacere l’annuncio del sindaco di Chivasso, dottor Libero Ciuffreda, del gemellaggio che verrà avviatro con l’siola di Ventotene, dove nel 1941 venne redatto un documento federalista che preconizzava l’Unione dei Paesi Europei, il Manifesto di Ventotene. Un’isola che è stata pure luogo di confino, durante il tragico ventennio fascista, di politica del calibro di Sandro Pertini, Giorgio Amendola, Umberto Terracino e Giovanni Longo. Furono proprio tre confinati politici, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, a redarre il Manifesto di Ventotene.

In questa orazione dell’Anpi, nel giorno della Liberazione, è necessario ricordare che guerra e fascismo hanno rappresentato un tragico binomio, che sconvolse prima l’Europa e poi il mondo intero. Milioni di morti e distruzioni apocalittiche, a causa di una feroce follia innescata da due dittatori: Hitler e Mussolini. 

La Germania, dopo aver annesso l’Austria, conquistato la Boemia e sottomesso la Slovacchia, nel settembre 1939 invase la Polonia. Un’aggressione che provocò la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra e l’esplosione della seconda guerra mondiale.  Quando nella primavera del ’40 l’esercito tedesco sfondò le difese francesi, anche Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna: voleva avere dei “morti da giocarsi sul tavolo della pace”, avviando anche per l’ Italia una tragica avventura che seminò morte e distruzioni. Il primo atto della tragedia si chiuse il 25 luglio del ’43, con la caduta di Mussolini.

Il secondo atto riprese con l’8 settembre quando Badoglio, nomintato in sostituzione del Duce, firmò l’armistizio con gli alleati e le truppe naziste occuparono il centro-nord, per tentare di bloccare l’avanzata degli alleati.

È soprattutto in questa fase che l’eroico contributo del movimento partigiano diventò essenziale per la liberazione dell’Italia.

Le sofferenze, le battaglie, la fame, le torture, le morti che subirono i partigiani consentirono al nostro Paese di riscattarsi soprattutto moralmente e di essere protagonisti della lotta per l’autodeterminazione e per la cacciata dei fascisti e degli invasori nazisti.

Una data importante, dunque, quella del 25 aprile, che venne scelta, il 22 aprile 1946, con un Decreto legislativo luogotenenziale, per “la celebrazione della totale Liberazione del territorio italiano, dichiarandola festa nazionale”. Una scelta convenzionale, perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della Liberazione di Milano e di Torino, Entro il 1° maggio, poi, tutta l’Italia settentrionale venne liberata: Bologna il 21 aprile; Genova il 26 aprile, Venezia il 28 aprile.

Gli italiani riacquistarono la libertà, ma il Paese era stato distrutto da cinque anni di guerra e da venti anni di dittatura fascista. Simbolicamente, il 25 aprile rappresenta dunque l’avvio di un percorso storico che proseguì con il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che vide la vittoria della Repubblica sulla Monarchia e con la promulgazione della Costituzione.       

Malgrado sia una data importante, con il trascorrere degli anni dall’aprile 1945, il rischio principale che si corre quando si svolgono le commemorazioni del giorno della Liberazione è di scadere nella retorica celebrativa. Lo ricordai nel 2003, allorchè fui chiamato dall’allora presidente Anpi, il compianto partigiano Eugenio Banfo, a tenere l’orazione pubblica del 25 aprile, in piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lo ripeto oggi, 11 anni dopo, chiamato allo stesso non facile compito dal pesidente Anpi Vinico Milani, nonché segretario dell’Anpi provinciale di Torino.

Per questioni biologiche  (parliamo di fatti accaduti 69 anni fa) i protagonisti di quei giorni sono purtroppo ormai pochissimi fa noi. Una situazione di fatto che l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia ha affrontato negli ultimi anni, dandosi l’obiettivo di coinvolgere maggiormente i giovani, con iniziative di tipo storico e documentativo, ed anche interessandoli ai racconti dei padri, che a loro volta fecero tramandare i fatti di quegli anni da chi non è più tra noi. A questo proposito, voglio qui ridordare le ultime due gravi perdite dell’Anpi chivassese: “Notu” Costamagna e “Pippo” (Pierino Emanuel).

Non sono un tifoso di date a memoria. Ritengo però che sarebbe cosa buona e giusta che in tutte le scuole italiane si insegnassero soltanto tre date, quelle che ho appena citato: una il 25 luglio 1943, la caduta del Duce; l’altra è il 25 aprile 1945 e la terza l’8 settembre 1943, il giorno dell’Armistizio e dello sbandamento dei nostri militari. Non tante date, ma soltanto tre. Purtroppo, spesso tanti di noi (non penso solo chi parla) abbiamo modo di verificare che questo non avviene.

Per la Resistenza, invece, non c’è una data precisa che stabilisca quando ebbe iniziò. Come scrisse Piero Calamandrei, semplicemente, «era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». La lotta partigiana in Italia fu caratterizzata dall’impegno unitario di tutto il fronte delle opposizioni che il fascismo con la violenza e la persecuzione aveva tentato di stroncare con ogni mezzo. Cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici, trovarono intesa ideale e organizzativa sotto il comune obiettivo della democrazia e della libertà. È in quella scelta che si trovano le radici dell’Italia repubblicana. È grazie a quella scelta, infatti, che venne a costituirsi il Comitato di Liberazione nazionale che dopo la cacciata dei nazisti e del fascisti fu la culla per il primo parlamento democratico e la fucina feconda della nostra Costituzione.

Molti partigiani non avevano partito, erano semplici cittadini sentirono l’obbligo morale di combattere, un dovere verso il loro Paese, per cacciare l’invasore straniero. Erano uomini provenienti da esperienze diverse: studenti, lavoratori, vecchi antifascisti: in molti non si erano mai visti prima di prendere la via della montagna. Si sottrassero alla richiesta di collaborazione con i tedeschi, che minacciavano la deportazione o la fucilazione per chi non si arruolasse. A molti non rimase quindi che la scelta di scappare in montagna o sulle colline per unirsi alle bande partigiane e combattere per la libertà. Il loro fu un apporto anche morale, di riscatto del popolo italiano, appurato che l’apporto angloamericano fu determinante per liberare il nostro Paese dall’invasore nazifascista. Come poi non ricordare l’importante ruolo delle donne nella Resistenza, delle staffiste che rischiavano la vita ogni giorno per portare viveri e fondamentali informazioni ai partigiani?

È bene ricordare in questa sede che Chivasso ed i chivassesi diedero un importante contributo di militanza ed anche purtroppo di vittime alla lotta partigiana. In questo contesto si inserisce la fucilazione, avvenuta a Caluso, del partigiano chivassese Donato Bottero, con altri 17, avvenuta il 7 aprile 1944, ad opera dei fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana. Poi l’impiccagione di altri cinque partigiani e la fucilazione, a Zubiena, di Aldo Lusano ed Eugenio Bisattini, da parte del battaglione San Marco di Valerio Borghese, oltre alle uccisionio dei partigiani Onorato Cambursano, Giacomo Curreno e Boris Bradac, al quale è intitolata la sezione Anpi di Chivasso. I dati ufficiali parlano per Chivasso di almeno 37 caduti partigiani, oltre a 28 militaru deceduti nei campi di internamento nazisti od uccisi dai tedeschi. Vi furono anche deportati ebrei di Chivasso, che morirono nei campi di internamento nazisti (da Arrigo Levi ad Abramo e Rosa Segre). Come non ricordare poi le 47 incursioni aeree su Chivasso (fra bombardamenti e mitragliamenti), che causarono 127 morti, 14 invalidi e 375 feriti (senza contare le vittime soprese dalle incursioni aeree sulle strade provinciali e sull’autostrada).

Questi sono i dati del tributo di sangue versato dai chivassesi. Questa è la storia che si deve conoscere, senza scadere nella retorica, ma nello stesso tempo respingendo in modo fermo ogni tentativo di “svalutazione” della Resistenza e del ruolo della lotta partigiana contro il fascismo.

Dopo l’8 settembre 1943, tedeschi occuparono in pochi giorni il Paese, disarmando e catturando in Italia e all’estero deportandoli poi nei lager, 700 mila soldati italiani, lasciati senza ordini e direttive dal Re Vittorio Emanuele III, dal governo diretto dal Maresciallo Badoglio e dallo Stato Maggiore. Non si trattò, per l'Italia, di continuare una guerra perduta, bensì di cominciarne una nuova, una guerra di Liberazione sia dall’occupante tedesco che dai fascisti repubblichini. Si stima che i caduti per la Resistenza italiana sarebbero stati complessivamente 45 mila. Molti furono gli appellativi spregiativi usati dai fascisti e dai tedeschi per definirli: disertori, ribelli, fuori legge, sino addirittura “banditi”. Erano invece semplicemento dei partigiani, combattenti per la libertà, la pace, la giustizia e la democrazia.

Gente dalla cui lotta è nata una Costituzione i cui principi fondamentali sono importanti quanto in buona parte inapplicati. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, ma la contraddizione è forte se si pensa che la principale emergenza di questi ultimi cinque anni di grave crisi economica è proprio l’occupazione. Pochi giorni fa, poi, l’Istat ci ha raccontato che in Italia ci sono 1 milione e 130 mila nuclei familiari senza alcun reddito. Significa che milioni di persone sopravvivono senza guadagnare nemmeno un euro al mese. Cosa dire poi dell’art. 3, che sembra musica per le orecchie di chi ha combattuto per la giustizia:Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distintizione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Sarebbe molto interessante chiedere ai giovani se a loro avviso questo bellissimo articolo 3 è applicato oggi in Italia, oppure no. Come si potrebbe loro chiedere se è rispettato l’articolo 11, quello sull’Italia che ripudia la guerra come strumenti di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Potremmo proseguire a lungo, decantando i primi 11 articoli della nostra Costituzione, che va certamente difesa, e che padre David Maria Turoldo definiva il “Vangelo della Repubblica”. L’assetto istituzionale della Costituzione deve, pure esso, essere difeso, rispettando la centralità del Parlamento, che rappresenta i cittadini e che efettua il controllo sull’attività del Governo. L’Anpi nazionale ed anche l’Anpi provinciale di Torino sono infatti molto preoccupati ed allarmati in merito alla recente proposta del Governo di riformare gli organi legislativi previsti dalla Costizione. Una riforma che, combinata con gli efftti di una legge elettorale come quella approvata dalla Camera, mira ad irrobustire i poteri del Presidente del Cosniglio e del Governo, contribuendo ad una ulteriore e grave riduzione dei margini di democrazia, che già da tempo subiscono una lenta ma progressiva erosione. La Costituzione, nata dalla Resistenza, ha subito negli anni diversi tentativi di modifica, troppo spesso caratterizzati da contingenti urgenze politiche, che hanno determinato profonde incongruenze e squilibri tra i principi in essa sanciti. L’Anpi è consapevole della necessità di aggiornare il testo costituzionale, per esempio per superare il bicameralismo pefetto, ma rispettando la centralità del Parlamento.



Per concludere vorrei leggere alcune frasi di un diciottenne che venne fucilato dai repubblichini il 4 maggio 1944, Giordano Cavestro, che morì a Bardi, in quel di Parma, ma che avrebbe potuto perdere la vita in qualsiasi luogo di battaglia nel nord Italia da liberare: “Se vivrete, toccherà a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio». Tutti noi dovremmo chiederci se veramente è servito da esempio il sacrificio di questo e di altri partigiani. Quando pensiamo alla nostra Italia devastata dalla speculazione edilizia, all’ambiente violentato dagli inquinatori, alle alluvioni provocate dall’incuria, quando pensiamo ai 3 milioni di disoccupati, ai governi inadeguati che hanno gestito l’Italia senza affrontare i problemi. Quando pensiamo alle ingiustizie come quella di ieri, 24 aprile, con la sentenza sulla Thyssen Krupp che tanto ha amareggiato i familiari delle vittime. Oppure se pensiamo ai cittadini che non partecipano alla vita pubblica, che non si interessano dei problemi di tutti, allora potremmo essere indotti a dire che il sacrificio dei partigiani non è servito.

Bisogna però continuare a lavorare per fare in modo che accada di nuovo come nel 1943, quando di fronte ad un’Italia in ginocchio tanti giovani si misero in gioco per migliorare il proprio futuro, risciando la vita, salendo in montagna o sulle colline, con la fame, il freddo, la paura, male armati ed equipaggiati, con un fazzoletto al collo rosso per i garibaldini, verde per chi era di Giustizia e Libertà e celeste per le forze autonome.

Oggi la Resistenza si fa e si deve fare tutti i giorni, difendendo i diritti, combattendo la xenofobia e ribattendo a chi sostiene che, in fini dei conti, c’è stato un primo “fascismo buono”, anche se era quello dell’olio di ricino.

Il compianto partigiano Eugenio Banfo, quando sentiva affermare da alcune parti politiche che gli eccidi nazifascisti sarebbero stati provocati dalle azioni degli stessi partigiani, rispondeva: “Queste erano le medesime cose che dicevano i fascisti in quell’epoca”. Il valore di queste manifestazioni ed il mantenimento della memoria (che non è solo lucidare le lapidi e posare i fiori, mansione pur essa importante) rappresentano dunque funzioni fondamentali a cui l’Anpi assolve. È necessario però che tutti i convinti  antifascisti non abbassino mai la guardia, coinvolgendo ed appassionando le nuove leve.



W il 25 Aprile. W la Liberazione. 

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