Torino
città chiusa. Blindata. Serrata in un dispositivo militare
soffocante, che aveva sigillato dietro un muro di armati ogni strada
laterale, ogni svincolo, ogni piazza. Il movimento No Tav l’ha
aperta «come una scatola di tonno», con la propria forza tranquilla.
Un corteo immenso, sorridente, amichevole è penetrato al suo
interno sciogliendola e conquistandola alle proprie ragioni.
Trascinando con sé gli spettatori. Mostrando un volto che la Valle
già conosceva – le famiglie con i bambini in testa, la banda che
suona le musiche delle sagre mescolate a quelle partigiane, gli
anziani con i nipoti, i gruppi di paese e di frazione -, ma che la
città in parte ignorava, accecata da un’informazione tossica, che
ogni volta manipola e nasconde.
Il monumentale tribunale vuoto, assolutamente vuoto,
circondato dai blindati e dalle grate di ferro ancorate col cemento
al suolo come la zona rossa di Genova nel 2001 — quasi lì dentro ci
fosse l’oggetto del desiderio della folla che gli sfilava accanto -, è
il simbolo dell’ottusità del potere. Della sua incapacità di capire e
pensare, come accade, appunto, a ogni potere, quando perde la ragione
del proprio agire, e resta appeso al proprio apparato della forza
senza giustizia (che si rivela, appunto, violenza).
Guardando quella folla multicolore, che sfilava serena, a volto scoperto, davanti ai cordoni cupi, catafratti, chiusi dietro i propri scudi, che sigillavano il percorso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, carabinieri, polizia, guardia di finanza) era difficile immaginare come sui primi fosse possibile distendere l’ombra fosca del terrorismo e sui secondi appiccicare l’etichetta della legalità. Ai primi la violenza, agli altri la giustizia. Piuttosto, verrebbe da dire, il contrario.
Il Movimento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una semplice marcia ha strappato di mano ai propri nemici ogni elemento di credibilità per sostenere l’assurda teoria – ma sarebbe meglio chiamarlo teorema – che tenta di riconfigurare le azioni di protesta di quella popolazione sotto il segno cruento dell’accusa di terrorismo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argomenti di chi, per sostenere una causa razionalmente insostenibile, è costretto a ridurla a questione di ordine pubblico, in cui, come è noto, chi ha il manganello dalla parte del manico decide.
Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta contro un materiale resistente e intelligente che sarà davvero difficile ignorare.
Marco Revelli.
Guardando quella folla multicolore, che sfilava serena, a volto scoperto, davanti ai cordoni cupi, catafratti, chiusi dietro i propri scudi, che sigillavano il percorso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, carabinieri, polizia, guardia di finanza) era difficile immaginare come sui primi fosse possibile distendere l’ombra fosca del terrorismo e sui secondi appiccicare l’etichetta della legalità. Ai primi la violenza, agli altri la giustizia. Piuttosto, verrebbe da dire, il contrario.
Il Movimento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una semplice marcia ha strappato di mano ai propri nemici ogni elemento di credibilità per sostenere l’assurda teoria – ma sarebbe meglio chiamarlo teorema – che tenta di riconfigurare le azioni di protesta di quella popolazione sotto il segno cruento dell’accusa di terrorismo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argomenti di chi, per sostenere una causa razionalmente insostenibile, è costretto a ridurla a questione di ordine pubblico, in cui, come è noto, chi ha il manganello dalla parte del manico decide.
Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta contro un materiale resistente e intelligente che sarà davvero difficile ignorare.
Marco Revelli.
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