Il film di novembre

                                                            
“Bella Addormentata”
di Marco Bellocchio.

Recensione a cura di DOMENICO CENA

Anche in questo suo ultimo film, Marco Bellocchio rimane fedele a se stesso, alla reputazione di regista ostico e scomodo, sempre controcorrente, che si è creato fin dall’inizio con gli ormai mitici “I pugni in tasca” e “La Cina è vicina”. E, come sempre, una tale coerenza gli costa assai cara, come dimostra l’ormai abituale scarso successo dei suoi film nei vari festival in cui vengono presentati, anche quelli più prestigiosi, quali il Festival di Venezia.
“Bella addormentata”, in realtà, è un film meno riuscito rispetto all’autentico capolavoro che era il film precedente, “Vincere”, che raccontava l’ascesa al potere del giovane Mussolini vista con gli occhi di Isa Dalser, la donna prima amata, poi respinta e segregata con fredda indifferenza. 
Anche qui, però, l’intento è quello di scavare a fondo nella nostra società, di analizzarne tutti gli aspetti e le contraddizioni più profonde, partendo non più dalle radici storiche, ma dall’attualità, quella più scottante e che crea contrasti insanabili e irriducibili conflitti, come il caso di Eluana Englaro.
Ma il “caso Englaro” è solo il pretesto, l’occasione che porta alla luce le contraddizioni latenti. Così Bellocchio, inserendosi nel filone del docufilm, cioè del film che combina documentario e finzione, parte dalle immagini televisive del febbraio 2009, quando Eluana, su richiesta del padre, dopo diciassette anni di coma profondo, viene trasportata in una clinica di Udine, dove verrà interrotto il trattamento che la tiene artificialmente in vita. Siamo cioè al momento culminante dello scontro tra due diverse Italie, con princìpi e certezze apparentemente inconciliabili.
A questo piano documentaristico, si intrecciano quattro storie di fiction, che rappresentano quattro vicende private, per molti versi opposte tra loro, messe in crisi dall’avvenimento pubblico. Così abbiamo il senatore del Pdl (interpretato magistralmente, come sempre, da Toni Servillo) che accorre a Roma per votare il decreto voluto dal governo Berlusconi per impedire il trasferimento a Udine di Eluana e, per coerenza con se stesso, decide di non votare il provvedimento. Maria, sua figlia, invece, raggiunge la clinica per manifestare contro l’interruzione del trattamento, ma, arrivata lì, le sue convinzioni verranno messe in crisi da un incontro inatteso. Intanto, il dottor Pallido (interpretato da Pier Giorgio, il figlio di Bellocchio) lotta con tutte le sue forze per impedire a Rossa, una attraente tossicodipendente, di suicidarsi. E infine c’è la diva del cinema (anche qui, una splendida Isabelle Huppert) che si aggrappa ad una fede egoistica e assoluta nella vana speranza di far uscire la propria figlia dal coma, fede che però paga a caro prezzo. 
Si tratta di situazioni estreme, ma per nulla convenzionali. Siamo cioè al secondo livello, quello del privato, che sta sotto, o va di pari passo, con pubblico, il politico. Se il pubblico si manifesta con le immagini dei media espressione del potere (specie la tv), il privato si esprime soprattutto attraverso i sentimenti, cioè il melodramma. E infatti qui entrano in scena l’amore, quello adolescenziale, ma anche quello coniugale e paterno. E anche il dubbio, l’incertezza, lo smarrimento, insomma, tutti i vari sentimenti che caratterizzano la nostra vita.  Ed è partendo di qui che si potrebbe trovare una soluzione ai conflitti. In questo senso si spiega la frase di Maria, la figlia, citata spesso dai critici anche con una evidente ironia: "L'amore cambia il modo di vedere le cose".
Bellocchio è probabilmente uno dei pochi registi, se non l’unico, almeno in Italia, che riesce a tenere insieme i due piani, il pubblico e il privato e lo fa senza retorica, con una intelligenza e uno sguardo capaci di andare al di là delle convenzioni e degli stereotipi di ogni tipo. 

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