"LA PELLE CHE ABITO" di Pedro ALMODOVAR. Recensione a cura di DOMENICO CENA. Come può un regista cambiare pelle ancora una volta, restando sempre se stesso? Sembra essere questa la domanda da cui è partito Pedro Almodóvar, superati i sessanta, per girare un film che in qualche modo rappresenta una novità nella sua carriera. Con “La piel que abito”, infatti, il regista spagnolo, dopo il tentativo poco riuscito de Gli abbracci spezzati, si avvicina con determinazione al genere noir, o dark, con una buona dose di horror incorporato. Sono lontani ormai i tempi del primo Almodóvar, quello di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, con il culto dell’eccesso e dell’artificio, dagli atteggiamenti ai colori, dai volti, ai gesti, alle passioni, fino alle acconciature, in una girandola di citazioni e impasti di linguaggi, da quello erudito al pop, dalla pubblicità alla soap opera. Il tutto condito di sesso, anzi di postsessualità. Una specie di Tarantino europeo, più colto, legato alla sua città, Madrid, e anche più elegante. Poi la prima svolta, con una serie di film sul dolore e la morte (Tutto su mia madre, Carne Tremula, Parla con lei), una decisa e del tutto inattesa virata verso il melodramma. Per arrivare a Volver, che costituisce sicuramente uno dei punti più alti nella filmografia del regista. In questa fase, protagoniste assolute del cinema almodovariano sono le donne: madri, figlie, mogli, vedove per niente inconsolabili, assassine. Ma anche solidali tra loro, discrete, ironiche, dispensatrici di affetto e amore, rappresentanti di un mondo fatto di carne e sangue, depositarie di ricordi e nostalgia. Gli uomini sono un peso, un intralcio, meglio lasciarli alle loro inutili occupazioni o ai loro ozi noiosi, se proprio non si riesce a sfuggire alle loro perversioni, non resta che farli fuori con circospezione. Ed ecco, ora, quella che sembra essere una nuova, importante mutazione. Anzitutto l’atmosfera, quella classica, fredda e inquietante del thriller: “Pedro mi ha assolutamente vietato di sorridere” dice Antonio Banderas, il protagonista. Almodóvar si rivolge alla storia del cinema non più per trarne delle citazioni ironiche e giocose, ma per riprenderne i modi e le forme, per ripeterne gli stili e porsi in continuità con quelli. La novità principale è forse qui: Almodóvar si considera ormai un regista maturo, un”autore”, un po’ come Polanski, e pensa che il suo posto sia lì, nel cuore del cinema stesso. Ecco allora la muta, ma la nuova pelle, indistruttibile, porta pur sempre i segni delle precedenti. Così ritroviamo la trasgressività giocosa, magari concentrata in un unico personaggio, un cattivissimo che indossa un improbabile costume da carnevale. Ritroviamo Antonio Banderas, quello lanciato giovanissimo ormai più di vent’anni fa, anche lui nella piena maturità. E ancora i viaggi avanti e indietro nel tempo, i traumi indelebili, le colpe e le ossessioni. Ma soprattutto, sempre quella legge del desiderio che sconvolge i ruoli, i generi, la vita. |

Il film di ottobre...
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