Disco di Aprile...


YO YO MUNDI
"Munfrà"
Recensione di 
Come si fa a non apprezzare un disco così ricco di melodie e timbriche, gioioso e triste, “opulento come una bella polenta” (parole di Paolo Conte), leggero e profondo, nostalgico e fiero?
Ammetto di non aver mai amato gli Yo Yo Mundi, ma questo progetto ad ampio respiro, che abbraccia storie e culture diverse e le mette attorno al “Munfrà”, il Monferrato, raccogliendo “frammenti di racconti minimi tra gli accadimenti della storia” (parole del gruppo) è un regalo inaspettato, un vero piacere per l’ascolto, un talismano scaccia-sfiga (la sfiga di vivere in questo paese che avvilisce la cultura; la sfiga di dover assistere al tributo – post-mortem? - di un Vecchioni a Sanremo; la sfiga di assistere alle periodiche retoriche sul 'popolare'...). Un rifugio, anche, dalle brutture radio/tele/web-visive che assediano il nostro quotidiano.

Nel disco, sedici brani composti e suonati dal quintetto con un florilegio di collaboratori di prim’ordine, alcuni artisti d’area folk: Hevia, Sergio Berardo, Fabio Rinaudo, Betti Zambruno, Filippo Gambetta, Vincenzo Zitello, Stefano Valla…
I pezzi sono come legati da un destino condiviso,  caratterizzati da uno stile interpretativo omogeneo, da una regia comune, e pur risultando vari nei registri non smarriscono mai il senso di un’identità unica, di un’origine che ha la sua ragione d’essere nella cultura popolare di quell’area affascinante del Piemonte, nelle sue armonie mille volte ascoltate e ballate, nel suo straordinario parlato.

Cuore dell’album (perché esiste sempre un cuore..) “Arcanssél”, 2:49 in tutto: un valzerino che è malinconia e struggimento per un mondo che sembrerebbe tramontato, “pieno di storie e tipi d’ogni genere, piemontese, lombardo e ligure, cosmopolita e ricco di grano e rugiada…” (ancora dalla prefazione di Conte). Spartiacque ideale tra il presente degradato che viviamo e un passato che non sembra ancora tramontato del tutto, nella quotidianità pigra della provincia agricola.

Molte volte ho denunciato l'evidente mancanza di ‘autenticità’ di certa sedicente musica ‘folk’, la scaltra furbizia di produzioni patinate che giocano a rimescolare stilemi e forme del tradizionale combinandole in prodotti discografici sofisticati ma freddi, privi di vita, per accondiscendere un'idea di 'popolare' contemporaneo forzatamente esotico e terzomondista (world muzak?).
Qui, al contrario, il lavoro di produzione sfida le opportunità offerta dalla tecnologia coniugando brillantezza di suoni e profondità, professionalità e calore, tecnica ed espressione, tanto da suggerire che il discrimine in ultima analisi è l'onestà e la forza delle cose da dire, l'urgenza incoercibile di esprimerle costi quel che costi (non certo per  obbligo contrattuale o per la necessità di fare concerti...).
Il ricordo degli Orsanti, nel brano strumentale dallo stesso titolo, sul finire del disco, un piccolo capolavoro ‘felliniano’ di italianità. E sembra proprio di vederla la piazzetta di paese che si riempie di gente curiosa, affascinata dall’arrivo dell’orsante, un po’ domatore un po’ saltimbanco.
“Munfrà”, per farla breve, è album che documenta come meglio non si potrebbe lo stato di salute del folk italiano impegnato faticosamente a ricollocarsi nella contemporaneità, tra nostalgia e ricordo, rabbia e tenerezza, senso e nonsenso... 





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