"Il Grinta" di Joel ed Ethan Coen. Recensione a cura di Domenico CENA. Il western, si sa, è come l’araba fenice, dato più volte per morto e definitivamente sepolto, risorge sempre vigoroso e diverso da prima. E’ successo con la fine del western classico, per il dissolvimento del mito della frontiera e del conflitto tra wilderness e civilization, rinato con sorprendente intensità e uno sguardo critico radicale nel nuovo western del dopo ’68 e nel western all’italiana di Sergio Leone e compari. E potrebbe, forse, succedere di nuovo, come sembrano indicare alcuni episodi recenti, magari celati all’interno di un genere diverso, come si conviene a un’epoca di contaminazioni. E’ il caso, ad esempio, del duello che il protagonista di “Grande Torino” affronta disarmato, sacrificandosi per salvare la comunità cui sente di appartenere, o di “Into the wild”, in cui la ricerca di una nuova ed estrema frontiera porta il giovane Chris a una morte solitaria. I fratelli Coen, come al solito, lasciano da parte i preamboli e senza troppe esitazioni realizzano un western talmente eccessivo, da far implodere tutti gli schemi e le tipologie narrative del genere. Ispirandosi direttamente al romanzo di Charles Portis, più che al precedente film di Hathaway con John Wayne, mettono in crisi le categorie classiche del western già fin dalla scelta del protagonista. Che non è qui il classico personaggio di poche parole e molte esperienze, che non accetta compromessi e arriva fino in fondo anche se tormentato o disilluso, ma in qualche modo l’esatto opposto, cioè una ragazzina inesperta e loquace, pronta a mercanteggiare con tutti pur di raggiungere un obiettivo che in sé non ha nulla di morale, vendicare la morte del padre, ma di cui lei è pienamente convinta. E’ lei la “True Grit“ che dà il titolo al film. Ostinata e intrepida, non esita ad affrontare uomini rudi e navigati per coinvolgerli nell’impresa, si lancia imperterrita con il suo cavallo nelle acque impetuose di un fiume e non si spaventa neppure quando è costretta a dormire in compagnia dei cadaveri di tre impiccati, o peggio ancora, nello stesso letto con una vecchia che russa e le porta via tutte le coperte ogni volta che si gira. Al suo fianco, il feroce ma un po’ arrugginito sceriffo nonché cacciatore di taglie Rooster Cogburn, il personaggio già interpretato da John Wayne e ora da un ottimo Jeff Bridges, e il suo omologo cittadino, il ranger LaBoeuf già da tempo sulle tracce dell’assassino, interpretato da Matt Damon. Un po’ collaborando, un po’ litigando tra loro, i tre affronteranno insieme una serie di avventure dagli esiti inaspettati e sempre diversi da come li avevano programmati. E questo non tanto per il fatto che qui i cattivi sono veramente spietati e sanguinari, ma perché alla fine tutti dovranno fare i conti con una realtà di cui non avevano tenuto conto, un qualcosa di molto pericoloso che sta dentro di noi, o anche all’esterno, e che lascia su ognuno di loro delle tracce indelebili. Conoscendo l’attenzione dei Cohen per il presente, si sarebbe tentati di provare un gioco dell’attualizzazione un po’ azzardato e vedere nella novità e nei modi della protagonista un riferimento alla vigente presidenza degli States. Di conseguenza, la rude brutalità dello sceriffo Cogburn alluderebbe al recente passato e il presuntuoso ed eccentrico La Boeuf a un certo ceto intellettuale progressista americano. Con il cattivissimo Cheney e i suoi amici che naturalmente rappresentato l’altro, il malvagio che viene da fuori. Ma tutti i protagonisti di questo gioco dovranno, alla fine, confrontarsi con un qualcosa di più grande di loro e affrontare “le serpi che l’uomo nasconde nel proprio seno e la corsa affannosa che ti metterà in ginocchio sotto il peso delle stelle”, come dice la Bibbia. |
Il Film di Aprile...
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