Libro di gennaio 2011...

 

 "La paura del laico", di R.Escobar
Il Mulino.editore. pp.113
e:
"Poveri, noi", di M.Revelli
Einaudi, pp.127.
Recensioni a cura di Ermanno VITALE.
Sono due libri piccoli quelli che vorrei presentarvi: R. Escobar, La paura del laico, il Mulino, Bologna 2010,pp. 113, e M. Revelli, Poveri, noi, Einaudi, Torino 2010, pp. 127.  Insieme tolgono il velo sull'Italia di oggi, interpretando la cifra e le cifre di un disastro non solo economico ma anche, e forse soprattutto, morale e civile. Di più, esistenziale. Due piccoli libri, assai densi, che andrebbero letti con attenzione da chi fa parte delle classi dirigenti, in particolare da chi fa politica, non importa se a destra o a sinistra, se alla base o al vertice  dei partiti e dei movimenti. Per provare, proporzionalmente alle loro responsabilità, la vergogna che tutti meritano di provare e per provare a ripartire, finalmente, dall'ammissione pubblica del naufragio in corso anzichè alla sua negazione.
Solitudine esistenziale e paura dell'altro, soprattutto se ci appare come uno straccione venuto da lontano con la pretesa di condividere il nostro benessere ormai precario, dominano attualmente tutta  l'Europa occidentale, che si vanta di essere la terra dei diritti dell'uomo e della solidarietà sociale, ma in particolare l'Italia.  Nulla di nuovo sotto il sole: l'impoverimento materiale e morale delle classi subalterne  "dei penultimi",  si traduce nella ricerca di un facile capro espiatorio negli ultimi, in chi sta ancora un gradino sotto, i migranti, i poveri radicali, gli zingari. Queste dinamiche sociali della paura sono state coltivate ideologicamente dal connubio leghismo-berlusconismoin quanto inesauribile fonte di facile consenso politico. Scrive Escobar: "pare che tra le due visioni del mondo, tra quella etnicistica e quella televisiva, ci sia più un punto d'incontro. Intanto, entrambe pretendono di semplificare il mondo, ora con l'odio ora con la fascinazione populistica. E poi un altro elemento le accomuna, le fa coerenti: il rifiuto  esplicito per gli etnisti, dissimulato per l'uomo del popolo di una prospettiva politica (e culturale) laica" (pp. 67-68). I miti identitari della padania così come l'identificazione berlusconiana del popolo con un capo non ammettano per definizione la possibilità di altre visioni del mondo, di altri progetti di società. Tutto ciò che non è con noi, è un complotto contro di noi da parte di forze oscure e malvagie. 
Il libro di Revelli deve molto, per ammissione dell'autore, alla sua esperienza di presidente, nel periodo 2007-10) della Commissione d'indagine sul'esclusione sociale (CIES). E' infatti una ordinata, sintetica ma non scarna, raccolta di cifre, di dati statistici che mettono a nudo il disastro Italia. Ne riporto solo uno, per non togliervi il piacere amaro della lettura: "l'indicatore europeo della popolazione a rischio di povertà" ci colloca in una posizione francamente imbarazzante, una delle peggiore dell'Europa a 25. Nel 2007 è l' ultimo anno di "benessere" prima dell'esplodere della crisi, con una percentuale pari al 20% (un cittadino su 5 sotto la soglia) l'Italia si posizionava  al quartultimo posto (che diventa l'ultimo se il calcolo è eseguito  su valori di soglia "ancorati"  al 2005) , seguita  solo dalla Lettonia (21%),  dalla Bulgaria (22%) e dalla Romania (25%)? (pp. 31-32). L'Olanda, la migliore, era invece al 10%. Eppure tutti insistono, anche a sinistra, con la grottesca retorica del "siamo un grande paese"!
Ma Revelli non si limita ai dati, li interpreta, ne tira le conseguenze, anche emotivamente forti,sulla psicologia collettiva, sui sentimenti della nazione e sulla sua tenuta democratica. Il quadro è alanto realistico quanto desolante. Anche in questo caso mi limito a una citazione tra le molte che fanno riflettere sul futuro che attende le giovani generazioni: "La moltiplicazione dei conflitti orizzontali sembra essere diventato il tratto dominante di una società come quella italiana " bloccata verso l'alto". Nella quale, cioè il conflitto redistributivo appare confinato al circuito inferiore della stratificazione sociale. Ridotto alle sezioni marginali della ricchezza sociale. Ciò che conta, e ciò che solo appare fattibile ai quasi poveri dell'ex ceto medio, non è tentare di togliere qualcosa ai super-ricchi o di scalare la piramide sociale con l'impegno severo negli studi e nel lavoro ma al contrario spingere ancora più in basso, e se possibile fuori dallo spazio sociale, chi sta già sotto: l'invidia sociale lavora non come pungolo di emulazione per assottigliare le diseguaglianze, ma come risentimento e odo dei penultimi verso gli ultimi. Ultimi, certo, ma che agli occhi dei penultimi, di un ceto medio impoverito, hanno comunque troppo, troppe tutele, troppi diritti ecc. I ricchi sono ormai intoccabili e, per così dire, giocano in un campionato cui non si può neppure pensare di accedere. Le diseguaglianze sono abissali, quasi inesprimibili. E allora l'autostima del ceto medio traballante è data dal distanziamento verso gli ultimi, che debbono essere ulteriormente schiacciati e cacciati, verso i quali non c'è più sentimento di pietà ma un'assurda forma di invidia per chi sta peggio ma ci appare come incombente destino, come prossima fermata: "Forse per la prima volta nella storia " commenta Revelli " il motto del Boccaccio è solo la miseria senza invidia"(p. 119).
Si sta ricreando, e sta ingrossando rapidamente, quella massa di manovra che già fu al servizio dei totalitarismi novecenteschi. Un ceto medio-basso rancoroso e cattivo, giovani senza prospettive, disillusi dalle istituzioni democratiche, che combattono la guerra infinita della globalizzazione senza sapere neppure perchè e  da che parte stanno, chi sono gli amici e i nemici.  Un cocktail molotov perfetto, che lascia poco tempo per ripristinare lo statuto "di ciò che finora è stato inteso come democrazia" (p. 127). E per avere una probabilà ࠤi riuscita, l'esercizio del pessimismo e non dell'ottimismo sarebbe il dovere di una classe dirigente responsabile.

 

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