"Il tempo che ci rimane"
di Elia Suleiman
Recensione a cura di Domenico CENA.
Si può ridere di un dramma come quello palestinese? E c’è qualcuno che ha il diritto di farlo, o ne è capace? Elia Suleiman pensa di sì e ci prova.
Strano personaggio questo Suleiman. Già l’idea di un regista palestinese è di per sé abbastanza anomala, ma la cosa più singolare è che i suoi film siano pervasi da un umorismo costantemente sospeso tra la farsa e il nonsense, con dei chiari riferimenti a Tati e ai grandi comici del cinema muto. E con una sensazione sotterranea di angosciosa disperazione, capace di spegnere all’istante ogni accenno di sorriso.
Nato a Nazareth nel 1960, Elia Suleiman fa parte di quel gruppo di Palestinesi che vengono etichettati come arabo-israeliani, figli di coloro che, nel 1948, con la Nakba e la proclamazione dello Stato di Israele, riuscirono a rimanere nelle loro case e oggi vivono una condizione di cittadini di serie B, una minoranza in casa propria, con pochi diritti e segnati da vari marchi distintivi, addirittura le targhe delle loro auto sono diverse da quelle degli altri cittadini israeliani.
Professore all'università di Birzeit, vicino a Ramallah in Cisgiordania, uno tra i più importanti istituti dei Territori palestinesi, che ha svolto un ruolo importante nel dialogo politico, Suleiman è al suo secondo lungometraggio di successo, dopo “Intervento Divino”, premiato al festival di Cannes nel 2002. In quel film si parlava dell’amore impossibile tra un arabo palestinese di Nazareth e una ragazza di Ramallah, che si incontrano ogni giorno al ceckpoint e passano il tempo tenendosi per mano e osservando senza parole le assurdità quotidiane di questo non luogo per eccellenza. In realtà, i film di Suleiman non hanno una trama precisa, sembrano quasi delle strisce di comics accostate le une alle altre, talvolta riprese e sviluppate, altre volte lasciate cadere, ma con personaggi e situazioni comuni ed esiti a volte folgoranti, come il babbo natale inseguito e accoltellato da un gruppo di ragazzini all’inizio del primo film.
Anche l’inizio de “Il tempo che rimane” è surreale. Siamo a bordo di un taxi, con un passeggero silenzioso che si rivelerà poi essere lo stesso Suleiman. Fuori si scatena un furioso temporale e l’autista si perde, così i due rimangono isolati in un vuoto senza uscita, su strade che non portano da nessuna parte. E’, chiaramente delineata, la situazione che ci verrà descritta in tutto il resto del film.
Suleiman ci racconta la storia della sua famiglia, a partire dal 1948, con i soldati degli stati arabi amici, accorsi in aiuto dei palestinesi, seduti tranquillamente ai tavolini di un bar che sbeffeggiano i passanti (la scena del bar sarà uno dei tormentoni ripresi per tutto il film) e i ragazzi palestinesi che si liberano delle divise per non farsi catturare dall’esercito israeliano. Il futuro padre di Elia, invece, viene catturato e accusato dall’immancabile collaboratore a viso coperto di fornire armi ai palestinesi, rischiando così la fucilazione. Esilarante la scena in cui il soldato israeliano incaricato di sistemare il prigioniero, essendo più piccolo di lui, sale su di un masso per poterlo bendare.
Il padre se la cava, il tempo passa, le giornate si susseguono nella più grigia e monotona depressione. Il vicino di casa si ubriaca tutti i giorni, si cosparge di cherosene e minaccia di darsi fuoco, ma non riesce mai ad accendere il fiammifero. Il piccolo Elia va a scuola e viene rimproverato dal professore: “Chi ti ha detto che gli americani sono imperialisti?” La direttrice proietta “Spartacus”, ma alla prima scena di bacio, come i nostri viceparroci di una volta, si piazza davanti al proiettore e proclama che sono cose come tra fratello e sorella.
Arriviamo così ai giorni nostri, con Elia ormai adulto e in totale afasia, che ritorna per rivedere la vecchia madre, anche lei in silenziosa attesa della morte. Qualcosa però è cambiato, la globalizzazione è arrivata anche lì, ad assistere la madre c’è una badante filippina che si esibisce al karaoke e il poliziotto palestinese arrotonda il magro stipendio facendo le pulizie di casa. Sempre più depresso, Elia si procura un’asta per saltare il muro, ma al contrario, cioè da Israele verso la Cisgiordania. Ci ritroviamo così a Ramallah, la più ricca città dei Territori, con macchinoni fermi ai semafori e i ragazzi che parlano tranquillamente al cellulare con il cannone di un carro armato puntato alla testa. Stanno organizzando una serata in discoteca, a dispetto del coprifuoco e ignorando gli avvertimenti minacciosi di un soldato israeliano, che finirà per farsi trascinare anche lui dai ritmi vorticosi della disco-music.
Come dire che il tempo che rimane è poco, presto saremo tutti uguali, ogni differenza sarà cancellata, almeno così non ci saranno più conflitti.
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