Libro di Maggio...

 
Difendersi dal potere. Per una resistenza costituzionale
di Ermanno Vitale
Roma-Bari, Laterza, 2010
Recensione a cura di Piero MEAGLIA
Nelle democrazie, nelle “società aperte” contemporanee, il diritto di resistenza pare divenuto un ferrovecchio, destinato ad essere oggetto di studi eruditi di storia del pensiero politico ma non di teoria politica e di dibattito pubblico. Un tempo, il tempo delle varie forme di governo autocratico, la riflessione intorno alla legittimità o meno di destituire o addirittura uccidere il tiranno, l’invasore, l’usurpatore, il despota o il dittatore – o comunque di abbattere i regimi assoluti, dispotici e totalitari che rappresentavano le diverse figure dell’oppressione del governanti sui governati – poteva godere, per così dire, di una sua forza intrinseca, derivatale dall’evidenza del problema che affrontava.
Tale riflessione poteva spingersi, come ci ha insegnato Locke, a interrogarsi sulla legittimità di resistere anche al “governo rappresentativo” e al “parlamento”, qualora quest’ultimo tradisse palesemente e ripetutamente la fiducia accordatagli dai rappresentati: allora infatti le costituzioni non si erano ancora dotate di meccanismi di correzione interna, di istituzioni di garanzia, prime fra tutte le corti costituzionali.
Ma con la comparsa e il progressivo consolidamento dello stato democratico di diritto provvisto di molteplici istituti di garanzia parve ai più che il vecchio “diritto di resistenza” potesse andare tranquillamente in pensione, senza rimpianto alcuno.
Soprattutto nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra gli strumenti di opposizione “attraverso il diritto” sembravano essersi così affinati da rendere inutile e contraddittorio, se non pericoloso, riammettere in qualche forma quella “resistenza all’oppressione” che figurava nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e in alcune costituzioni di quel periodo.
Eppure, nelle cosiddette democrazie, poco o tanto imperfette, nelle quali viviamo, è proprio ormai inutile riflettere sulla resistenza all’oppressione e sul “diritto di resistenza”? O forse queste democrazie sono ormai così imperfette, così lontane dall’ideale da cui sono nate - ed anche e soprattutto minacciate da involuzioni autoritarie - che è nuovamente necessario riprendere a ragionare sull’antico e venerabile “diritto di resistenza”?
Collegando “diritto di resistenza” a “costituzione”, l’autore formula la nozione di “resistenza costituzionale”. Espressione che significa prima di tutto “prendere sul serio” la Costituzione. E quindi rispettarla appieno, portarla a compimento nell’ordinamento giuridico e nell’organizzazione sociale, e “resistere” ai tentativi di modificarla in peggio o di distruggerla.  E significa chiedersi se, per conseguire questi risultati, sia opportuno o meno inserire nel testo di una costituzione moderna un articolo, un comma, insomma un riferimento alla resistenza, ovvero, al “diritto di resistenza”.
Più in generale, si tratta di interrogarsi intorno alla liceità, o addirittura al dovere, in  determinate circostanze, di resistere ai diversi tipi di potere presenti nella vita collettiva. Non solo al potere politico, ma anche al potere economico e a quello ideologico (costituito dai sempre più forti network mediatici).
La riflessione di Vitale si sviluppa intorno a quattro grandi “domande”.
In primo luogo: che cosa significa politicamente “resistenza”? (cap. 1) Intuitivamente “resistere” implica opposizione e volontà di cambiamento rispetto ad un regime (o ad un progetto politico in avanzata fase di realizzazione) ritenuto ingiusto o eversivo. La resistenza pare essere quindi una specie “ibrida”, o perlomeno curiosa, del genere “mutamento politico”: si direbbe che è un’azione intesa a cambiare per conservare. In quali aspetti è simile e in quali si distingue allora non solo dalla rivoluzione – alla quale pare storicamente più affine –, ma anche da altre azioni o progetti di mutamento (o non mutamento) politico, quali riforma, conservazione, restaurazione, reazione?
In secondo luogo: perché resistenza, ovvero: con quali argomenti si può giustificare il diritto alla resistenza? (cap. 2). Sulla base di antiche consuetudini che il detentore del potere politico avrebbe violato? Sulla base del conflitto irreducibile tra le norme positive emanate dal sovrano e leggi di rango superiore, siano esse divine o naturali? Sulla base della violazione, da parte del governante, del patto che ha stabilito con i governati, cioè della costituzione, in particolare dei suoi principi fondamentali? O sulla base di che altro ancora? E di conseguenza: chi ha il diritto o dovere di resistere, quando, con quali modalità?
In terzo luogo: a chi o che cosa, a quale tipo di potere è lecito o opportuno resistere? (capp. 3 e 4). La tipologia moderna delle forme di potere è fondata sulla distinzione tra potere politico, economico, ideologico (o massmediatico). Ma mentre nella storia del pensiero politico si è riflettuto intensamente e a lungo riguardo alla resistenza al potere politico, troppo poco – ritiene Vitale – ci si è posti il problema  della resistenza al potere economico e a quello ideologico. Eppure, è sufficiente resistere al potere politico se questo è a sua volta condizionato o dominato dai poteri economico e ideologico? Oppure occorre pensare a come “resistere” anche direttamente a questi due ultimi poteri?
La quarta e ultima domanda concerne il come si possa o si debba resistere, ovvero si propone di approfondire le modalità, i metodi della resistenza (cap. 5). La distinzione tradizionale collocava da un lato la resistenza passiva, il rifiuto dell’obbedienza che comprendeva l’accettazione di tutte le sue conseguenze, e dall’altro la resistenza attiva, l’azione violenta intesa a rovesciare il detentore del potere politico. Ma nel mondo moderno, e soprattutto a partire dalla metà dell’Ottocento, le modalità e le manifestazioni di resistenza si sono articolate e moltiplicate, dando spazio a molte forme di resistenza parziale, che, pur non proponendosi di rovesciare questo o quel regime, intendono indurlo a rettificare aspetti salienti della sua struttura istituzionale, della sua condotta o del suo programma politico. Si pensi ai cosiddetti “repertori della protesta”, che vanno dalla prudente raccolta di firme alla disobbedienza civile antagonistica. In particolare, si incontra qui la questione decisiva dell’uso della violenza o, al contrario, della riduzione al minimo della violenza che può essere legittimo usare nell’esercizio del diritto di resistenza. Nell’affrontare tale questione non si può non prendere in seria considerazione i metodi di lotta non violenta, o per meglio dire intesi alla riduzione al minimo della violenza, che Gandhi ci ha lasciato in eredità.
Indice del libro
I. Resistenza  e forme di mutamento politico
1. Resistenza “costituzionale”, disobbedienza civile e rivoluzione
2. Resistenza “costituzionale”, riformismo e altre forme di mutamento
II. Giustificare il diritto di resistenza
1. Bobbio e d’Entrèves: la forza e il diritto
2. Il diritto di resistenza: da Antigone a Rawls
3. Dossetti e il dibattito alla Costituente
4. Il caso italiano
III. Resistere al potere economico ed ideologico
1. La tipologia moderna delle forme di potere
2. Opacità del potere ideologico ed economico: Bernays e Pasolini
3. Ragioni (costituzionali) per resistere
4. Il massacro di Ludlow
IV. Alla ricerca di un equilibrio sociale perduto
1. Riconoscere la nuova gerarchia dei poteri sociali
2. Non solo stato o mercato. La proposta antiutilitarista
3. Resistere all’assolutismo proprietario
4. Resistere alla crescita autodistruttiva della “megamacchina”
V. Metodi di resistenza
1. Modalità e limiti del “diritto di resistenza”: dai monarcomachi a Thoreau
2. Violenza strutturale resistenza “costituzionale”
3. Resistenza nonviolenta per “veder chiaro”

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