Film di Maggio 2010...


"IL PROFETA"
di 
Jacques Audiard

Recensione di Domenico Cena

“Il Profeta” ha molti punti in comune con “Welcome”, il film del mese scorso. Si tratta anche qui di un film francese, che racconta una storia di formazione il cui protagonista è un giovane “extracomunitario”. Con una differenza fondamentale, però. Questa volta si tratta di una formazione dall’esito positivo, il giovane riesce ad integrarsi pienamente nella nostra società che, a sua volta, lo accoglie a braccia aperte.
Malik è un “arabo”, un diciottenne analfabeta, che incontriamo all’inizio del film mentre sta entrando in carcere, condannato a sei anni forse soltanto perché basta guardarlo in faccia per capire che si tratta di un ingenuo poveraccio, la classica vittima sacrificale senza speranza. Cerca malamente di nascondere i due soldi che si ritrova, forse la causa diretta della condanna, e partecipa senza capire alle rapide formalità dettate dall’ipocrisia del carcere che si presenta come un luogo di riabilitazione. Poi, indifeso e solo, viene accolto all’inferno.
Malik però non è uno stupido e possiede tutta l’energia vitale della giovinezza. Si guarda attorno con attenzione e, affidandosi al proprio istinto, è pronto a imparare, a collaborare, a impegnarsi per trovare un posto in questa nuova comunità, che da parte sua lo sta osservando per valutare cosa può ricavarne.  E presto arriva la terribile cerimonia di iniziazione: uccidi o sarai ucciso.
Dotato di una innata integrità, Malik cerca di ribellarsi, ma quando capisce che non c’è nulla da fare, decide di affrontare la prova. E non solo riesce a superarla, ma ne riceve, in cambio del sangue versato, il dono di prevedere, quando si trova in pericolo, ciò che sta per avvenire. Inizia così una rapida e brillante carriera, che lo porterà da servitore del clan dei mafiosi corsi a capo indiscusso, accolto alla sua uscita dal carcere da un corteo di auto scure piene di uomini ai suoi ordini. Il giovane Malik è diventato un uomo pienamente integrato, in grado di provvedere a sé e alla famiglia ereditata da un compagno che ha dato la propria vita per lui.
Audiard, da regista di classe, riesce a evitare sia le trappole dell’apologo moralistico nei confronti della nostra società “corrotta”, sia gli stereotopi del film di genere noir mafioso carcerario, di cui riprende molti motivi, quali le atmosfere cupe e gli ambienti angoscianti, l’incombere della colonna sonora, le scene di violenza, senza però nessuna concessione allo spettacolo.
E lo fa ricorrendo al realismo proprio del documentario, adottandone lo sguardo distaccato che osserva senza giudicare i volti e le azioni dei personaggi le cui storie stanno al centro del film. E’ su di loro, infatti, che Audiard costruisce questo film magistrale, concentrando sempre più particolari in tempi in cui l’attesa interminabile del carcere subisce le accelerazioni improvvise dell’azione, con i modi di una tragedia classica un po’ irriverente. Con un crescendo di potenza in cui la liberazione finale assume un significato sarcastico, come la risata liberatoria che accompagna la conclusione di un telefilm americano, ma qui molto più amara e indigesta.
 
 
 
 
 
 
 

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