IL FILM DEL MESE DI APRILE 2009




"Gran Torino"
di Clint eastwood.

Recensione di Domenico CENA.

Erano anni, decenni, secoli ormai che non mi capitava di uscire da un cinema sotto l’effetto western, afferrando il mio giaccone come se fosse il rude pastrano di John Waine e avviandomi con un sorriso amaro e quella camminata lunga da piano americano. Uno si sente un po’ coglione, ma l’effetto western è incontenibile, travolgente.

Questo perché l’ultimo film di Clint Eastwood è anzitutto un western. Un western classico, ma anche rivisitato alla Sergio Leone e per di più pienamente attuale. Sembrerebbe impossibile mettere insieme tutte queste caratteristiche tra loro opposte, eppure Eastwood ci riesce, regalandoci ancora una volta un film sorprendente.

“Gran Torino” è anzitutto un western trapiantato in città, in cui la classica dicotomia fordiana “giardino – deserto” è rovesciata. Non è più l’eroe solitario che lotta e si sacrifica nel deserto per trasformarlo in un giardino, di cui altri coglieranno i frutti. Walt Kowalski, il personaggio interpretato da Eastwood, è un reduce isolato, cura maniacalmente il suo piccolo giardino davanti a casa, circondato dal deserto di una città da cui è scomparsa ogni traccia di ordine e legge, se non quella del più forte. Quello che era il simbolo della civiltà, il villaggio, la città dove la comunità vive al riparo della legge, è ora il luogo della barbarie e il prezioso sogno americano, simboleggiato da una Ford Gran Torino del 72, è sepolto da anni in garage. Kowalski però è rimasto fedele a se stesso. Ostinato, lucido, eticamente intransigente, conserva con cura poche amicizie legate al passato, come quella con il barbiere italiano (da incorniciare la gag dei due che cercano di insegnare al giovane Thao il linguaggio basilare di una vera amicizia virile). E ha mantenuto la caratteristica principale di un eroe western, quella di “un personaggio la cui vicenda particolare gli consente di interpretare, alla luce del proprio destino, quello di tutti gli altri”. E’, cioè, un “distributore di destini”. Soltanto per questo, per cambiare il destino già segnato del giovane Thao, Kowalski accetta di rimettersi in gioco.

E dal cinema di Sergio Leone, Eastwood ha tratto il senso della violenza. Non la violenza simbolica, rituale del western, e non solo quella realistica del gangster movie, ma soprattutto la violenza contro la donna, come in “C’era una volta in America”. Qui la vittima è la sorella di Thao, è lei che paga per la salvezza del fratello. Ancora una volta la donna, la figlia, che dovrebbe avere la possibilità di realizzarsi compiutamente nella comunità–giardino costruita dai padri, è costretta ad assumere un ruolo maschile (come la Maggie di “Million dollar baby”), a combattere e a sacrificarsi fino ad autodistruggersi. I figli e i nipoti, infatti, si sono persi per strada, nelle paludi del pensiero unico e del più inetto e imbelle conformismo, tocca alle figlie, quelle vere e quelle adottive, prendere il loro posto e andare fino in fondo.

In fondo, il traguardo è la morte, o qualcosa di analogo. Se è vero che la morte è la “compagna inseparabile del cinema di Leone e del cammino dei suoi personaggi” e che spesso i suoi film sono “più di ogni altra cosa film sull’attesa della morte”, la stessa cosa vale per questo film di Eastwood. Il film inizia con il funerale della moglie di Kowalski, ma si direbbe che sia anche il suo, ridotto com’è ad una specie di ombra, una presenza fantasmatica ignorata o molesta. E il sacrificio finale, dai vistosi tratti religiosi, non è altro che la logica conclusione di un cammino non compiuto, a causa di una non meglio definita colpa originaria.

Tutto questo senza intenti predicatori, ma con molta autoironia. Eastwood riesce a dire delle cose eccessive, enfatiche, a dare dei giudizi definitivi (non c’è speranza di salvezza per la nostra società, se non grazie ai contributi di qualcuno “altro”, che viene da fuori) senza retorica. Sarà di destra o di sinistra? O è già andato oltre e noi siamo rimasti indietro?


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