Nel 2005 con L’impresa irresponsabile il sociologo Luciano Gallino
analizzava il rovesciamento della concezione olivettiana dell’impresa
«che conciliava innovazione produttiva, territorio e comunità». Ai
giorni nostri, secondo lo studioso, le aziende si fondano sulla
massimizzazione, a ogni costo, del proprio valore di mercato in Borsa,
svincolato dal fatturato e dalle dimensioni produttive. Professore
emerito all’Università di Torino, è stato uno dei primi studiosi a
parlare di finanziarizzazione delle imprese. E, ora, interviene nel dibattito sollevato da Fulvio Coltorti, ex direttore dell’Ufficio studi di Mediobanca, a proposito del libro La fabbrica della crisi
di Angelo Salento e Giovanni Masino (Carocci). «Può essere utile
riproporre il tema per verificare se questo processo è tuttora in
corso», dice, «ma certo non lo si può considerare una scoperta teorica.
Gli studi sul tema sono ormai radicati. La celebre frase “banche che
costruiscono automobili”, riferita a General Motors, Ford e Chrysler,
girava come battuta popolare quasi dieci anni fa».
Professore, a che punto è arrivata la finanziarizzazione delle imprese?
È un processo che ha avuto inizio negli anni Ottanta e ora è più forte
che mai. Continua il predominio della finanza sull’economia reale, sulla
produzione. Non è una contrapposizione tra due nemici. Le radici
affondano in una crisi economica iniziata prima, già negli anni
Settanta, quando si verificò una crisi di accumulazione che ha dato vita
a forme di stagnazione. La finanziarizzazione è stata la risposta per
cercare di aumentare i profitti senza passare dalla più faticosa strada
della produzione.
Sostiene che il capitalismo industriale sia passato dal produrre merci al produrre denaro. Ha coniato il termine «finanzcapitalismo», di cosa si tratta?
È un termine secco e criptico per disegnare la finanziarizzazione
dell’economia. Le operazioni finanziarie vengono svolte soprattutto per
fini speculativi e non per produrre merci o servizi. È un modello che si
è affermato come nuova fase del capitalismo. Nel quadro complessivo
delle decisioni prese quotidianamente dai dirigenti industriali, i
motivi finanziari hanno il sopravvento rispetto ad altri parametri, che
avevano precedentemente caratterizzato lo sviluppo come, appunto,
l’occupazione.
Nel libro preso in esame da Coltorti, viene proposto un
ripensamento della governance delle imprese, attraverso un accordo tra
lavoratori e rappresentanti del capitale, come succede in Germania. Cosa
ne pensa?
Sono piuttosto scettico riguardo ai risultati ottenuti dal modello
tedesco di cogestione. Ha contenuto la disoccupazione ma ha imposto la
cosiddetta moderazione salariale di cui hanno fatto le spese i
lavoratori. Su questo i sindacati tedeschi sono stati consenzienti. La
moderazione salariale ha certo permesso crescita ed esportazione, ma ha
causato una compressione dei diritti e della domanda interna. Oltre a
milioni di lavoratori precari e più poveri.
Il ministro Saccomanni ha parlato di «recessione finita». Anche lei ritiene che siamo a un punto di svolta?
Dopo aver sentito l’affermazione del ministro non sapevo se ridere o
piangere. Dal 2009 si susseguono dichiarazioni identiche. Vieterei per
legge l’espressione “luce in fondo al tunnel”. Uno o due decimi di Pil
in più, dopo essere tornati ai livelli del 1998, sono ben poca cosa. Tra
l’altro, possono corrispondere a profitti finanziari o investimenti su
processi d’automazione, senza l’impiego di un solo operaio in più. Il
criterio esatto per valutare miglioramenti non è la crescita del Pil in
sé, ma l’occupazione.
Cosa pensa della proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, consegnata lo scorso aprile alla Camera?
Si può sperare che migliori la tutela al reddito se si cercheranno di
aggregare le molteplici forme di sostegno al reddito stesso, comprese le
varie forme di cassa integrazione. Ma il primo posto in agenda, deve
averlo la creazione d’occupazione. La mancanza di lavoro è più grave
della mancanza di reddito. Prendiamo esempio da quello che ha fatto il
New Deal roosveltiano negli anni Trenta.
A proposito di occupazione, il governo Letta ha presentato una serie di interventi per assumere in 18 mesi 200 mila giovani.
È una ricetta pallida, un vecchio rimedio: incentivi a pioggia che
creeranno effetti minimi rispetto ai costi. Dalle proposte del governo
non si riesce a stabilire quale sarà l’occupazione netta, né a escludere
che all’assunzione di un ventenne corrisponda al licenziamento di un
quarantenne. La realtà è che le aziende hanno usato questo periodo di
crisi per effettuare considerevoli ristrutturazioni tecnologiche,
comprando robot sempre più economici, che vanno a sostituire la
necessità di manodopera. In Cina, una grande impresa taiwanese, che
assembla gran parte dei telefonini del mondo, sta installando un milione
di nuovi robot e ridurrà del 40-50% l’occupazione. La Cina non è così
lontana da noi.
MAURO RAVARINO.
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