L’industriale di
Giuliano Montaldo
Giuliano Montaldo, 82 anni, una carriera ormai
cinquantennale alle spalle (con film come Sacco
e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire e il Marco Polo televisivo) affronta nel suo ultimo lavoro il più
attuale dei temi del presente: la crisi.
Certo, le scorie di una lunga parabola esistenziale e
artistica sono evidenti e condizionano in alcuni tratti il film, ma in generale
lo sguardo del regista si rivela sempre molto lucido e per molti versi
originale. Anzitutto (e non è un merito da poco), riesce ad evitare le trappole
giovanilistiche con cui il cinema nostrano ha fin qui affrontato il racconto
della crisi, riducendolo a soggetto da commedia a sfondo generazionale, con
incursioni scontate e abusate nel mondo del precariato, rappresentato, questo
sì, con mezzi da cinema anni sessanta.
Montaldo evita la percezione più facile e immediata del tema
della crisi, allontanandolo e filtrandolo tramite un approccio letterario. Sono
evidenti, infatti, i riferimenti a Dostoevskij, a cui il regista ha dedicato il
suo film precedente, “I demoni di San
Pietroburgo”, e la cui visione “tragica” dell’esistenza è presente in tutta
l’opera del nostro. Visione che si esprime anzitutto nella fotografia, che ci
restituisce una Torino fosca, quasi in bianco e nero, con prospettive insolite,
come un deserto in cui ognuno va incontro ai suoi fallimenti senza trovare, o
senza accettare, un aiuto da chi gli sta vicino, o cercandolo dove non lo può
ottenere, per una specie di innato orgoglio autodistruttivo.
Così Nicola, il giovane imprenditore protagonista del film
(molto ben interpretato da Pierfrancesco Favino), per salvare la fabbrica
ereditata dal padre, cerca prima un sussidio in banca e, ottenuto un rifiuto,
si rivolge a una fantomatica compagnia tedesca che, da buon italiano, tenta di
fregare. Eppure ci sono attorno a lui una rete di rapporti sociali e affettivi
in grado di dargli il sostegno di cui ha bisogno. A cominciare dagli operai,
con cui riesce a stabilire un legame basato sulla correttezza e sulla lealtà
reciproca, agli impiegati, fino agli amici che incontra in piscina, con quella
figura dell’anziano imprenditore, ironica e paterna insieme, a cui Nicola non
riesce a trovare la forza per chiedere un aiuto, in uno scacco, questo sì,
generazionale. E poi ci sono i vincoli affettivi, anzitutto quello con la
moglie, ma anche qui, il protagonista, spinto come da un istinto
autolesionista, non riesce, o non vuole accettare il soccorso più semplice e
immediato che gli viene offerto, dando il via a una catena di eventi che lo
porterà a un tracollo non solo economico.
E forse sta proprio qui l’elemento più significativo di
tutto il film, la capacità di Montaldo di unire la crisi economica con lo
smarrimento esistenziale, e di farci capire che non si può uscire dalla prima
senza tener conto dell’altro.
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