Il film di febbraio...

                                         

                               

"E ora dove andiamo?"
di Nadine Labaki.

Recensione a cura di Domenico Cena



Opera seconda della regista e attrice libanese Nadine Labaki, “E ora dove andiamo?”, presentato a Cannes nella sezione “Un certain regard” e premiato al festival di Toronto, è un film pieno di difetti. Colori forti, anche troppo, coreografie ad effetto, personaggi spesso simili a macchiette, gag di facile presa sul pubblico e, forse il peccato più grave, una combinazione caotica dei generi più disparati, commedia, musical,  farsa, tragedia …

Eppure, nonostante tutto, “E ora dove andiamo?” è un bel film. Non uno di quelli che incantano e seducono lo spettatore, che lo inducono all’immedesimazione, all’ammirazione viscerale, ma un film che costringe chi lo vede a reagire. A tratti con fastidio, di fronte a certe astuzie talmente disinvolte da apparire volute e provocatorie, a volte con un certo imbarazzo, specie per lo spettatore di sesso maschile, spesso con dolore, di fronte ad un’angoscia e una sofferenza che si avvertono come sincere e reali.

Il film racconta la storia di un gruppo di donne che abitano in un villaggio libanese rimasto praticamente isolato a causa della guerra, ma che, proprio per questo, è riuscito a trovare un’originale forma di pacifica convivenza tra le due comunità religiose che lo compongono, cristiani e musulmani. Una tregua fragile, sempre  sul punto di spezzarsi al minimo accenno proveniente dall’esterno. Gli uomini soprattutto, con una ostinazione infantile, sono sempre pronti a farsi i dispetti, a insultarsi, ad affrontarsi con violenza. Pur di tenerli tranquilli e sotto controllo, le donne non esitano a ricorrere a qualunque mezzo, compreso quello di far sgorgare lacrime di sangue dagli occhi di una statuetta della Madonna, di invitare in paese una improbabile troupe di ballerine provenienti dall’Europa dell’Est, o addirittura di cambiare religione. Ma al di là delle gag, spesso indovinate, e dei toni da commedia, anche la fervida fantasia delle donne non sembra in grado di trovare un mezzo efficace per conservare la pace.

Ed è proprio questo, forse, uno degli aspetti più convincenti e autentici del film. L’impossibilità, cioè, di vivere serenamente, come tutti vorrebbero, di allontanare i fantasmi che impediscono di lasciarsi alle spalle ciò che è stato e di avere una vita propria, oltre le appartenenze e i condizionamenti culturali, etici e religiosi. Cosa che vale, naturalmente, sia per i singoli che per un paese intero: la metafora è anche troppo evidente. 

Un altro elemento interessante del film è la capacità della regista di creare un universo popolato di donne, una specie di coro che, a differenza di quello dell’antica tragedia greca, non si limita a commentare l’azione, ma interviene direttamente cercando di  guidarla e cambiarne i prevedibili esiti.

Già con il film d’esordio, “Caramel”,  Nadine Labaki aveva saputo costruire un piccolo mondo al femminile, gioioso e colorato, con i propri piccoli e grandi drammi, le debolezze, i segreti e gli umori di ognuna. Qui forse, oltre alla precisione nel tratteggiare ogni singola componente del gruppo con le sue specificità sociali, religiose, fisiche o legate all’età, troviamo qualcosa di più. La sensazione, cioè, di un qualcosa di inesorabile che condiziona e rinchiude le nostre vite, da cui non riusciremo mai a liberarci, neppure dopo morti.

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