Art. 1 L’Italia e una repubblica democratica fondata sul lavoro.

Iniziamo a pubblicare gli articoli e dei brevi commenti, come materiale di discussione. Chi vuole può farci avere un testo e lo metteremo, nei prossimi giorni.  

 

L’Italia e una repubblica democratica fondata sul lavoro.

In questo breve capoverso, i padri fondatori definiscono le caratteristiche fondamentali della nostra nazione.
Repubblica democratica, come forma di stato, ovvero insieme di pari, in cui tutti hanno diritto ad essere rappresentati.
Ma più profondo è il riferimento al lavoro.
Di fatto questo viene proposto come elemento fondante, come valore sul quale è costruita la nostra società.
Il Lavoro quindi è un valore, anzi Il Valore, e come tale deve essere trattato.
Non come una merce, non come un semplice elemento secondario del vivere sociale, ma come valore fondamentale di coesione e di sviluppo sociale.
Questo dovrebbe, a mio avviso, far riflettere molto tutti coloro che, in nome di uno sviluppo a tutti i costi o alle esigenze del mercato, stanno cercando di farlo diventare una merce, di ridurlo ad una variabile dipendente dalle esigenze di mercato.
Le operazioni fatte sul mercato del lavoro, sia dalla destra che dalla sinistra, hanno avuto come risultato una precarizzazione del lavoro e la sua sottomissione alle esigenze della produzione, producendo di fatto una disgregazione del tessuto sociale e un’atomizzazione del corpo sociale, rendendo tutti più soli nella costruzione del proprio percorso di vita, sganciando la propria dimensione lavorativa dal contesto sociale nel quale siamo inseriti.
Se il lavoro diventa, come le proposte di Marchionne stanno pretendendo, una merce, viene a mancare il fondamento della nostra carta costituzionale, viene a mancare il principio sul quale in nostro patto sociale è fondato.
E’ quindi necessario ripensare alle politiche del/sul lavoro tenendo presente che questo non può essere equiparato a una qualsiasi merce, ad una qualsiasi componente del mercato, pena la distruzione della nostra società.

Inoltre il lavoro è relazione. Non esiste un lavoro che non preveda la relazione tra più parti.
·       Il lavoratore, ovvero chi presta l’opera e per questo ne riceve un compenso che  successivamente, in altri articoli della Costituzione, viene quantificato in una quantità congrua alla propria dignità.
·        Il datore di lavoro ovvero chi richiede il lavoro, che deve essere tutelato nel la sua libertà d’impresa, ma che deve rendere conto alla società del proprio operato.
·       Il consumatore ovvero di utilizza il frutto del lavoro anche lui con diritti e doveri.
L’attualità ha sempre più schiacciato il primo partecipante all’insieme del lavoro, favorendo sempre di più il punto di vista dell’imprenditore, nel nome dell’economia di mercato, e favorendo l’identificazione del cittadino con il consumatore, come se in quella figura fossero rappresentati tutti gli aspetti dell’essere membro della comunità Italia. Ma il dimenticarsi che esiste anche il lavoratore e che questi è portatore di diritti e bisogni con comprimibili nel ruolo di consumatore ha dato il via a molti dei problemi che oggi ci troviamo di fronte, sia sul tema della rappresentanza, con la sparizione di interi settori di cittadini dal tessuto democratico, sia nella coesione sociale, con un crescendo di disaffezione dei cittadini nei confronti di una società che si dimentica di molti dei propri componenti, relegandoli ad esser fantasmi senza voce e senza volto, da sacrificare sull’altare della produzione e del controllo sociale.
E’ quindi necessario ripensare a come in Italia, ma non solo, si siano sviluppate le politiche relative al lavoro, riportando tutti gli attori del patto sociale che ci contraddistingue ad avere pari dignità nella relazione tra le parti, nel pieno rispetto della nostra Carta Costituzionale

La Sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione

Il secondo passaggio è quello che pare di più difficile comprensione all’attuale maggioranza. Il fatto di dover rispondere del proprio operato in un quadro di regole, di pesi e di contrappesi sembra, agli attuali occupanti del governo, un affronto personale, una fastidiosa scocciatura, un insensato impedimento.
I tentativi di ridurre quelli che sono meccanismi di controllo e di tutela della collettività sono molti, dalla modifica della composizione della Corte Costituzionale alla divisione della magistratura con l’asservimento dei pubblici ministeri al governo, e su questo è necessaria una ferma e costante attenzione per evitare che un governo che già assomiglia ad un sultanato, con il capo che nomina direttamente i suoi sgherri e le sue favorite, possa anche non avere una controparte che limiti i deliri di onnipotenza.
L’argomento principe che poi questi novelli dittatorelli utilizzano poi è di una speciosità nauseabonda. Il principio secondo il quale siccome il premier è eletto dal popolo e quindi ha in dovere di governare è un insulto alla nostra carta, oltre che al buon senso.
E’ evidente che nessuno si può porre al di sopra della legge, e che anche i giudici svolgono il loro mandato nel nome del popolo. A quanti in questi giorni paventano una riforma della costituzione affermando che il parlamento è preminente nei confronti di tutti gli altri organi della nostra amministrazione, bisogna ricordare che proprio l’articolo 1 afferma che il proprio mandato è svolto nei limiti che la carta costituzionale stabilisce,e quindi non è possibile, per l’equilibrio necessario alla conduzione di una repubblica democratica, che qualcuno sia più uguale di altri nei confronti della legge.  

Saturnino



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