Il film di giugno 2010...



L’uomo che verrà 
di Giorgio Diritti

Recensione a cura di Domenco CENA.


Mentre stanno ormai uscendo nelle sale i nuovi film presentati al festival di Cannes, è opportuno fermarsi ancora un momento sulla stagione passata, per parlare di un film che forse non ha ottenuto tutta l’attenzione che meritava. Si tratta di “L’uomo che verrà”, di Giorgio Diritti, che è stato apprezzato solo dopo che recentemente ha fatto il pieno di riconoscimenti al David di Donatello, il concorso che premia i migliori film italiani della stagione, dove ha ottenuto, tra gli altri, il premio come migliore film, ridimensionando opere che al botteghino hanno fatto molti più incassi, come il sopravvalutato “Baaria” di Tornatore.
“L’uomo che verrà” è un film sulla guerra, le stragi naziste e la Resistenza, temi difficili e ostici quant’altri mai, specie di questi tempi. Si tratta dell’opera seconda del regista, dopo “Il vento fa il suo giro”, il film d’esordio che lo ha segnalato subito come autore originale e intelligente. 
Se là si parlava del presente, toccando i temi dell’immigrazione, della diversità, dell’integrazione in una società per molti versi chiusa e arcaica, qui lo sguardo è rivolto al passato, ma si tratta di un tempo ancora vivo, con cui bisogna fare i conti, perché, come dice il proverbio da cui deriva il titolo del primo film: “Il vento fa il suo giro, ma prima o poi ritorna”.
E sono molti gli elementi comuni ai due film, a cominciare dall’ambiente in cui si svolgono le vicende raccontate, quello della montagna. Ne “il vento fa il suo giro” si trattava del paesaggio della Val Maira, una delle valli occitane, terra di confine con una sua lingua composita e talvolta oscura, tanto che il film era sottotitolato. Qui siamo nella zona di Monte Sole, sull’Appennino bolognese, ai tempi in cui queste montagne segnavano il confine bellico della Linea Gotica. Anche qui si parla una lingua incomprensibile ai più e si fa ricorso ai sottotitoli.
Simili, pur a distanza di molti decenni, sono le due comunità contadine, all’apparenza bloccate in un tentativo disperato di escludere la storia e di rimanere fedeli a un mondo legato ai tempi e ai cicli della natura. Uno sforzo destinato alla sconfitta, perché la storia è presente da sempre anche qui, la città non è così lontana, qualche giovane c’è stato e ne è tornato cambiato, da lì arrivano mercanti e sfollati. E poi arrivano i tedeschi e i fascisti, e allora farsi partigiani diventa una scelta inevitabile, come prima da contadini si stava contro i padroni.
Simile è anche il punto di vista da cui si osservano gli avvenimenti. Là si trattava dello sguardo di uno venuto da fuori, un immigrato francese che si trasferisce con la famiglia nelle valli occitane. Qui l’occhio dell’osservatore viene forse anche da più lontano, è quello di una bambina, Martina. E’ lei ad osservare ogni cosa con l’attenzione concentrata di chi subisce in qualche modo un’esclusione, perché Martina non parla, ha perso la propria voce da quando un fratellino di cui si prendeva cura mentre la madre era al lavoro nei campi le è morto tra le braccia. Il suo è quindi uno sguardo diverso e distaccato, ma sempre vigile, sospeso tra i frammenti di un mondo fiabesco che le fanno scambiare i lanci di paracadutisti per dei bambini che calano magicamente dal cielo a sostituire forse il fratellino morto, e la realtà violenta dei tempi. Sarà lei la prima a vedere gli incendi che segnalano l’avvicinarsi dei tedeschi, e sarà sempre presente nello svolgersi delle stragi, senza distogliere lo sguardo dall’orrore dei fucilati in massa nei cimiteri, o sterminati a colpi di bombe a mano nelle chiese.
Lo sguardo di Martina evita al regista le trappole della retorica, ma trasmette allo spettatore tutta la concretezza angosciosa dei massacri, visti con un rigore e una sostanza insopportabili per un adulto: il padre di Martina, che pure poteva salvarsi, si lancia disperato e disarmato contro due soldati tedeschi per farsi uccidere, e lo zio seppellisce le statue e gli oggetti della fede che fino a un momento prima rappresentavano una religiosità vissuta come valore portante della vita quotidiana.
Il senso del sacro è un altro degli elementi vitali di questo film, con una doppia dimensione, naturale e religiosa. La religione svolge un ruolo fondamentale nel mondo rappresentato nel film. Il collegamento è con il cinema di Olmi e la religiosità in un certo modo naturale, intrinsecamente connaturata dei suoi contadini, basta pensare a “L’albero degli zoccoli”. Ma c’è anche chi ha collegato questo film al cinema di Piavoli, con quel suo misticismo naturalistico, o ai documentari di De Seta sul mondo pastorale sardo degli ‘50 – ’60.
Una religiosità in ogni caso mai consolatoria né rassicurante, come non lo è l’esitante canto finale di Martina, che ritrova la voce per cullare il nuovo fratellino appena nato, l’uomo che verrà, dal futuro più che mai incerto.

Nessun commento: