LE PAURE DELLA CINA
La Cina è sempre più vicina, anche al cinema. In questi giorni, sono presenti sui nostri schermi ben due film cinesi: La città proibita di Zhang Yimou e Il matrimonio di Tuya di Wang Quanan.
Nel primo caso, in realtà, nonostante il regista, gli interpreti, i luoghi e la storia siano cinesi, si tratta di una megaproduzione internazionale, ambientata all’interno della città imperiale di Pechino, mai così fastosa, intensa e seducente, una vera gioia per gli occhi. Nel secondo caso, invece, il film è interamente cinese. Si tratta di due film per molti aspetti diversi, anzi quasi opposti tra loro, ma con alcune problematiche di fondo comuni, legate a quella che sembra essere una vera e propria crisi di identità della Cina contemporanea.
La città proibita rappresenta l’ultima tappa di una carriera ormai lunghissima, iniziata alla fine degli anni ’80 con film come Sorgo rosso e Lanterne rosse. Carriera che improvvisamente, nei primi anni del nuovo millennio, ha subito una svolta tanto inattesa quanto radicale, passando da film di stampo quasi neorealistico, girati con pochi mezzi e attenti alla lettura del presente del continente Cina, a spettacolari produzioni in stile hollywoodiano, girate con mezzi grandiosi e volte a esplorare la storia del paese. La città proibita è infatti la continuazione ideale dei recenti film in stile wu xia pian, i film orientali di combattimenti in costume, come Hero, del 2002 e La foresta dei pugnali volanti del 2004.
Se in questi due film il tono era epico e insieme melodrammatico, qui siamo nel pieno di una tragedia classica, degna dei teatri dell’antica Grecia. I protagonisti, infatti, non hanno un nome e la loro storia personale è avvolta nel mistero. Ciò che li distingue è il ruolo, con una commistione funesta tra funzione familiare e potere. L’imperatore è il padre, autoritario e spietato difensore del potere costituito, che ha conquistato e mantenuto però, come verremo a sapere, con l’inganno e il tradimento. Poi abbiamo l’imperatrice, la madre, la vera protagonista del film, una delle tante splendide figure di donna tratteggiate da Zhang Yimou, interpretata con una bravura che raggiunge la perfezione da Gong Li, l’attrice prediletta del regista. E infine i tre figli, tra i quali si dovrà scegliere l’erede al trono. E attorno a loro una miriade di altri personaggi, ognuno con un incarico preciso, previsto fin nei minimi dettagli da un cerimoniale rigoroso e rigidamente codificato. Fin qui i giochi sono chiari, ognuno ha le sue carte e si prepara a giocarle al meglio attorno al tavolo quadrato del potere.
Ma al di sopra del tavolo squadrato domina la sfera del cielo, e qui, naturalmente, le cose sono più complicate. Non sempre, anzi, quasi mai il ruolo che ognuno ricopre coincide con i rapporti personali che si intrecciano tra i componenti della famiglia imperiale. Il padre imperatore, che sembra così ansioso per la salute dell’imperatrice, è mosso da intenzioni tutt’altro che amorevoli e la madre è tale solo per i due figli minori. Il maggiore è figlio di un’altra madre e il rapporto tra lui e l’imperatrice non è precisamente filiale.
Al di là del mondo protocollare, scandito dai colori sgargianti e dai costumi sfarzosi, ne esiste un altro che vive nell’ombra, nascosto dietro i veli e le tende, un mondo parallelo che spia e svela gli inganni e le finzioni e fa esplodere i conflitti, fino allo scontro finale, in cui nessuno si salva, a nessuno è riservato un futuro.
Anche Il matrimonio di Tuya è un film che parla di legami familiari e sociali in crisi. Siamo in un ambiente totalmente diverso, in una delle zone più arretrate della Mongolia interna, un mondo pastorale che vive ancora in piena armonia con la natura, rappresentata dalle sterminate pianure percorse da un vento insistente, dolce e tormentoso allo stesso tempo. Bater, il marito, ha subito un grave incidente mentre stava scavando un pozzo per abbeverare il bestiame. L’acqua del pozzo avrebbe permesso alla famiglia di allevare un numero maggiore di animali e quindi di migliorare notevolmente la propria situazione economica e sociale. Ora Bater è invalido e Tuya deve occuparsi da sola di lui, dei due figli, della casa e del bestiame. E’ decisamente troppo, anche per una donna forte e determinata come lei. Allora, spinta da Bater stesso, decide di trovarsi un secondo marito, a patto però che accetti di prendere con sé anche il primo. Assistiamo così a una sfilata di improbabili pretendenti alla sua mano, quasi tutti pronti alla fuga di fronte allo sconvolgimento dei ruoli tradizionali rappresentato da Tuya e dalle sue insolite richieste.
Due film sicuramente non facili, impegnativi, ma che testimoniano la capacità del cinema cinese di affrontare, anche attraverso la rivisitazione della storia, temi e problemi di stretta attualità. Cosa che raramente dimostra di saper fare il cinema italiano, che si rivela però, sicuramente più piacevole, rilassante e di facile consumo.
Sarà anche per questo che la Cina fa così paura?
La Cina è sempre più vicina, anche al cinema. In questi giorni, sono presenti sui nostri schermi ben due film cinesi: La città proibita di Zhang Yimou e Il matrimonio di Tuya di Wang Quanan.
Nel primo caso, in realtà, nonostante il regista, gli interpreti, i luoghi e la storia siano cinesi, si tratta di una megaproduzione internazionale, ambientata all’interno della città imperiale di Pechino, mai così fastosa, intensa e seducente, una vera gioia per gli occhi. Nel secondo caso, invece, il film è interamente cinese. Si tratta di due film per molti aspetti diversi, anzi quasi opposti tra loro, ma con alcune problematiche di fondo comuni, legate a quella che sembra essere una vera e propria crisi di identità della Cina contemporanea.
La città proibita rappresenta l’ultima tappa di una carriera ormai lunghissima, iniziata alla fine degli anni ’80 con film come Sorgo rosso e Lanterne rosse. Carriera che improvvisamente, nei primi anni del nuovo millennio, ha subito una svolta tanto inattesa quanto radicale, passando da film di stampo quasi neorealistico, girati con pochi mezzi e attenti alla lettura del presente del continente Cina, a spettacolari produzioni in stile hollywoodiano, girate con mezzi grandiosi e volte a esplorare la storia del paese. La città proibita è infatti la continuazione ideale dei recenti film in stile wu xia pian, i film orientali di combattimenti in costume, come Hero, del 2002 e La foresta dei pugnali volanti del 2004.
Se in questi due film il tono era epico e insieme melodrammatico, qui siamo nel pieno di una tragedia classica, degna dei teatri dell’antica Grecia. I protagonisti, infatti, non hanno un nome e la loro storia personale è avvolta nel mistero. Ciò che li distingue è il ruolo, con una commistione funesta tra funzione familiare e potere. L’imperatore è il padre, autoritario e spietato difensore del potere costituito, che ha conquistato e mantenuto però, come verremo a sapere, con l’inganno e il tradimento. Poi abbiamo l’imperatrice, la madre, la vera protagonista del film, una delle tante splendide figure di donna tratteggiate da Zhang Yimou, interpretata con una bravura che raggiunge la perfezione da Gong Li, l’attrice prediletta del regista. E infine i tre figli, tra i quali si dovrà scegliere l’erede al trono. E attorno a loro una miriade di altri personaggi, ognuno con un incarico preciso, previsto fin nei minimi dettagli da un cerimoniale rigoroso e rigidamente codificato. Fin qui i giochi sono chiari, ognuno ha le sue carte e si prepara a giocarle al meglio attorno al tavolo quadrato del potere.
Ma al di sopra del tavolo squadrato domina la sfera del cielo, e qui, naturalmente, le cose sono più complicate. Non sempre, anzi, quasi mai il ruolo che ognuno ricopre coincide con i rapporti personali che si intrecciano tra i componenti della famiglia imperiale. Il padre imperatore, che sembra così ansioso per la salute dell’imperatrice, è mosso da intenzioni tutt’altro che amorevoli e la madre è tale solo per i due figli minori. Il maggiore è figlio di un’altra madre e il rapporto tra lui e l’imperatrice non è precisamente filiale.
Al di là del mondo protocollare, scandito dai colori sgargianti e dai costumi sfarzosi, ne esiste un altro che vive nell’ombra, nascosto dietro i veli e le tende, un mondo parallelo che spia e svela gli inganni e le finzioni e fa esplodere i conflitti, fino allo scontro finale, in cui nessuno si salva, a nessuno è riservato un futuro.
Anche Il matrimonio di Tuya è un film che parla di legami familiari e sociali in crisi. Siamo in un ambiente totalmente diverso, in una delle zone più arretrate della Mongolia interna, un mondo pastorale che vive ancora in piena armonia con la natura, rappresentata dalle sterminate pianure percorse da un vento insistente, dolce e tormentoso allo stesso tempo. Bater, il marito, ha subito un grave incidente mentre stava scavando un pozzo per abbeverare il bestiame. L’acqua del pozzo avrebbe permesso alla famiglia di allevare un numero maggiore di animali e quindi di migliorare notevolmente la propria situazione economica e sociale. Ora Bater è invalido e Tuya deve occuparsi da sola di lui, dei due figli, della casa e del bestiame. E’ decisamente troppo, anche per una donna forte e determinata come lei. Allora, spinta da Bater stesso, decide di trovarsi un secondo marito, a patto però che accetti di prendere con sé anche il primo. Assistiamo così a una sfilata di improbabili pretendenti alla sua mano, quasi tutti pronti alla fuga di fronte allo sconvolgimento dei ruoli tradizionali rappresentato da Tuya e dalle sue insolite richieste.
Due film sicuramente non facili, impegnativi, ma che testimoniano la capacità del cinema cinese di affrontare, anche attraverso la rivisitazione della storia, temi e problemi di stretta attualità. Cosa che raramente dimostra di saper fare il cinema italiano, che si rivela però, sicuramente più piacevole, rilassante e di facile consumo.
Sarà anche per questo che la Cina fa così paura?
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