Il caso Kerenes di
Calin Netzer
Mentre il cinema italiano
continua a proporre poco o nulla di nuovo, ci sono delle cinematografie quasi sconosciute,
o di nazioni considerate marginali che dimostrano invece una straordinaria vitalità.
E’ il caso della Romania, il cui esponente di punta è il Cristian Mungiu, di “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, Palma
d’Oro al festival di Cannes 2007, e del recente “Oltre le colline”, anche questo pluripremiato a Cannes 2012. Che non si tratti di un caso isolato, ma di
una vera e propria scuola, è dimostrato dall’Orso d’Oro di Berlino 2013,
assegnato a “Il caso Kerenes” di
Calin Netzer, anche lui romeno.
“Il caso Kerenes” è un film che si può leggere su due livelli
diversi, facilmente comprensibili e strettamente connessi tra loro. Il primo
livello è quello del rapporto tra una madre possessiva, la sessantenne
Cornelia, e Barbu, il figlio ormai trentaquattrenne. Questi non sopporta più le
ingerenze della madre nei suoi affari, ma continua a comportarsi da eterno
adolescente viziato, incapace di dare un senso alla propria vita. Caparbiamente,
cerca di sottrarsi al controllo ossessivo della madre, ma finisce sempre col
mettersi nei guai. Con la sua auto sportiva, ingaggia una gara con un altro
automobilista e investe un bambino che stava attraversando la strada. Toccherà
alla madre accorrere ancora una volta in suo aiuto e fare tutto il possibile
per salvarlo dalla prigione, ricorrendo anche alla corruzione e ai favori che
vengono dall’alto.
Il secondo livello, quello più
interessante, è il ritratto di una società, quella romena, delineato dal film.
Cornelia e il figlio, infatti, appartengono alla classe dei nuovi ricchi, che
si è formata in Romania dopo la caduta del regime di Ceausescu. Il regista,
Calin Netzer, conosce bene questo ambiente, visto che proviene da una famiglia
fuggita in Germania ai tempi del regime e tornata in Romania dopo la sua
caduta. Si tratta spesso degli stessi che gestivano il potere anche prima, che
ora possono esibire senza più finzioni le ricchezze e l’egemonia che si sono
conquistati, un’ostentazione fin troppo smaccata di beni e modi di vita
provenienti dall’occidente. Come se avessero paura che la festa possa finire presto e volessero approfittarne
finché dura. Paura che li costringe a vivere rinchiusi nella cerchia dei loro
simili, isolati da tutto il resto, per impedire a chi ne è escluso di
condividere un benessere che sono decisi a difendere a denti stretti.
Ma ecco che l’evento inatteso
mette in crisi tutto questo. Il bambino investito, infatti, appartiene a una
famiglia di contadini, che, quando Cornelia accorre sul luogo dell’incidente,
la accoglie con una rabbia cupa e ostile. All’inizio, lei non vuole aver nulla
a che fare con loro e tenta di salvare il figlio con ogni mezzo, lecito o no.
Tutti i suoi espedienti, però, si rivelano inutili e capisce che non potrà fare
a meno di incontrare la famiglia del bambino ucciso. Così, con il figlio e la
compagna di questo, a bordo della sua BMW, si reca in uno sperduto paese le cui
strade sono invase dal fango, alla ricerca della casa del bambino. Una volta
lì, il figlio si rifiuterà nuovamente di assumersi le proprie responsabilità e
toccherà alle due donne entrare, per incontrare una povertà estrema ma
dignitosa, che non chiede aiuti o compassione, ma solamente un riconoscimento
del proprio esserci, dei propri diritti , in primo luogo quello di esprimere il
dolore.
Ma tra le due parti non sembra esistere
una possibilità di incontro, ognuno appare chiuso in se stesso. Sarà il figlio,
inaspettatamente, al momento di ripartire, a scendere finalmente dall’auto per
parlare con il padre del bambino e stringergli la mano. Un gesto altamente
simbolico, una concreta indicazione di
speranza nel futuro.
Spicca, nella colonna sonora,
l’utilizzo di “Meravigliosa Creatura”,
la canzone di Gianna Nannini. Il
nostro paese come oggetto di desiderio, idealizzato, pronto a trasformarsi in
una grossa delusione per molti che ci sono arrivati, animati da improbabili attese.
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