"Zero dark thirty"
di Kathryn Bigelow.
Recensione a cura di DOMENICO CENA.
Forse è solo un’impressione, dovuta alla quasi contemporanea
uscita di tre film di grande impatto sia spettacolare che culturale, ma per il
cinema americano sembra tornare una nuova età dell’oro. Stiamo parlando di “Lincoln” del veterano Steven Spielberg,
di “Django Unchained” di Tarantino e
di “Zero dark thirty” di Kathryn
Bigelow.
Se Spielberg nel suo ultimo film, attraverso una riflessione
sulla storia americana, riesce a darci la sua visione dell’America di ieri e di
oggi, di quella mistura, cioè, di idealismo e realismo che riesce, anche nei
momenti di maggiore difficoltà, a tenere insieme la nazione, Tarantino conferma
ancora una volta la sua straordinaria
capacità di essere originale e sorprendente rifacendo cose altrui, da
perfetto rappresentante della cultura postmoderna. Un film, “Django Unchained”, che dura quasi tre
ore, ma che si vorrebbe non finisse mai: puro godimento.
Anche “Zero dark
thirty” di Kathryn Bigelow dura oltre due ore e mezza, e procede con una
pulizia e una padronanza assoluta della materia filmica, senza concessioni né
cedimenti, tanto che in molti hanno parlato di un film confuso e deludente che,
escluse la prima e l’ultima scena, quelle più spettacolari, per il resto è
piuttosto noioso. In realtà, al di là delle apparenze, nei suoi film Kathryn
Bigelow non cerca lo spettacolo, anche se questo finisce per essere sempre
presente, grazie al ritmo perfetto che la regista riesce a creare, con un
controllo totale dei tempi e degli spazi: anche qui cinema allo stato puro.
Nei suoi film, Kathryn Bigelow parte solitamente da
un’operazione antispettacolare, riduttiva, togliendo subito di mezzo quasi ogni
notazione psicologica o ideologica, tanto che i suoi personaggi, e gli attori
che li interpretano, possono sembrare, al di là della forte presenza fisica,
quasi inespressivi. E’ il caso qui della bella e brava Jessica Chastain, del tutto priva di trucco e di mimica,
ma dotata di grande intensità. E anche
per quanto riguarda il genere, è difficile dire se “Zero dark thirty” sia un film d’azione, di guerra, o un thriller. O
magari un cosiddetto docufilm, o un western postmoderno.
Si potrebbe dire che la regista ricerchi invece dei
sentimenti più profondi, primordiali, come potrebbero essere qui quelli della
solitudine e dell’ossessione. Nella sua dedizione assoluta alla causa che si è
scelta, anzi in un certo senso inventata, Maya, la novizia agente della CIA,
impegna tutta se stessa, rinunciando a tutto il resto, amicizia, amore, onori e
riconoscimenti. L’unico scopo della sua vita diventa la cattura di Osama Bin
Laden, una missione cui dedica tutto il suo tempo e il suo talento da “killer”,
senza pause e senza dubbi, anche quando la sua vita è in estremo pericolo, o la
cosa non sembra più interessare a nessuno. E per riuscirci, Maya si serve di
tutti i mezzi possibili, dalla tecnica più sofisticata, come gli elicotteri e
le armi in dotazione alla pattuglia che compie la missione finale, alla
tortura, cui assiste e collabora con sgomento, atterrita, ma di cui non rifiuta
i frutti.
Un punto di vista comunque c’è, ed è una prospettiva
femminile, di una che fa un lavoro duro, da uomini, sola o quasi in mezzo a
tanti uomini, ma meglio degli uomini e con un qualcosa di diverso, che loro non
hanno. Come una regista che fa lo stesso
cinema che fanno e hanno fatto tanti uomini, ma meglio di loro, e con un
qualcosa di diverso.
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