Il volantino l’ho trovato nella libreria del campus: martedì 13 marzo Angela Davis presenterà il suo nuovo libro “Arbitrary Justice”. Avevo letto da poco una biografia di Angela Davis. Alla fine degli anni ’60 aveva insegnato al dipartimento di filosofia di UCLA. Quando è venuto fuori che era iscritta al Partito Comunista Americano ne era stato chiesto il licenziamento. Il direttore del dipartimento di allora, Donald Kalish, si era però opposto ed altri suoi colleghi avevano difeso la Davis. Alcuni di loro insegnano ancora a UCLA. Angela Davis, invece, ora insegna all’Università della California Santa Cruz. Vista la sua biografia – donna afro-americana e comunista – ero curioso di incontrarla e di sentire cosa aveva da dire sull’America di oggi (recentemente avevo letto una sua dichiarazione su Obama in cui sosteneva che è un candidato nero che non spaventa i bianchi), sul movimento afro-americano, etc. L’Angela Davis autrice di “Arbitrary Justice” non era però l’Angela Davis che io avevo in mente. L’autrice del libro, anche lei di colore, insegna all’American University Washington College of Law e prima di diventare professoressa ha esercitato la professione di avvocato d’ufficio presso il Public Defender Service del distretto della Columbia. Se sia comunista o lo sia mai stata non lo so. Certamente, il contenuto del libro è sembrato interessante dalla presentazione che ne ha fatto. Il libro tratta del potere, quasi illimitato a quanto pare, che i pubblici ministeri hanno nel sistema giudiziario americano. L’aspetto più interessante però è stato sentire alcune delle storie riportate nel libro e alcune statistiche relative all’amministrazione della giustizia negli USA. Ridimensionano l’immagine di società multirazziale che a qualche europeo piace tanto propagandare. La verità è che, ancora oggi, un nero che uccide un bianco ha molte più probabilità di essere condannato a morte di quante ne abbia un nero che abbia ucciso un nero. Nonostante gli afro-americani costituiscano solo il 12% della popolazione il totale delle persone afro-americane la cui pena di morte è stata eseguita è il 34%. La cosa ancora più sorprendente è che nell’80% dei casi in cui è stata comminata la pena di morte la vittima era un bianco. Soltanto nel 14% dei casi era un nero. David Baldus dell’Università dell’Iowa ha condotto uno studio che dimostra il ruolo decisivo che i pubblici ministeri svolgono in queste disparità. Lo studio mostra infatti che i pubblici ministeri chiedono la condanna a morte nel 70 per cento dei casi che coinvolgono un imputato nero e una vittima bianca; nel 32 per cento dei casi che coinvolgono un imputato bianco e una vittima bianca; nel 15 per cento dei casi che coinvolgono un imputato nero e una vittima nera; nel 19 per certo dei casi che coinvolgono un imputato bianco e una vittima nera. Nel ricorso di fronte alla Corte Suprema per il caso McCleskey v. Kemp i risultati dello studio sono stati portati di fronte alla Corte Suprema come evidenza delle discriminazioni di cui gli afro-americani sono vittima nell’uso della pena capitale. Warren McCleskey era un nero condannato a morte per rapina a mano armata e l’omicidio di un poliziotto bianco nello stato della Georgia nel 1978. La Corte Suprema ha respinto il ricorso. La cosa interessante però è che ha accettato lo studio di Baldus ma ha sostenuto che nel caso McCleskey v. Kemp non era stata violata la costituzione. Secondo la Corte, infatti, McCleskey non era riuscito a dimostrare che la giuria nel suo caso aveva inteso discriminarlo per via del colore della sua pelle. Resta da chiedersi come McCleskey avrebbe mai potuto dimostrare una cosa del genere.
Annuncio che dal 25 al 27 aprile si svolgerà il LA Social Forum. Spero di riuscire ad andarci e di raccontare cosa è capitato.
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