Il film di dicembre...

  
Melancholia 
di Lars von Trier. 
Recensione a cura di Domenico Cena.

Forse qualcuno ricorderà le roventi polemiche con cui è stato accolto qualche mese fa “Melancholia” al Festival di Cannes, quando, durante la conferenza stampa di presentazione del film, von Trier affermò di essere nazista e definì lo stato di Israele come “un dolore in quel posto”. Parole che gli provocarono l’allontanamento immediato dal festival, in quanto “persona non grata”, e che probabilmente stanno frenando la distribuzione nelle sale del film. Naturalmente si trattava di una provocazione, una di quelle terrificanti battute a cui il regista, nel suo supremo masochismo, non riesce a resistere, anche se sa bene che gli costeranno care.
La provocazione è una delle componenti principali del cinema di von Trier e non manca neppure qui. Utilizzando qualche battuta tratta dal film, si potrebbe sintetizzarne il contenuto, il cosiddetto messaggio, dicendo che la terra è cattiva e merita di essere distrutta, il che accadrà tra breve, anzi sta già accadendo, anche se tutti, o quasi, fingono di non accorgersene.
Lucido, o deprimente, a seconda dei punti di vista. Ma questa è solo apparenza, la verità sta nel modo in cui si dicono le cose. E qui entrano in gioco tutto il furore e la genialità del regista danese, che ne fanno uno dei più importanti autori dei nostri giorni, e non solo in campo cinematografico.
Il film è preceduto da un prologo, una specie di sinfonia di immagini su musica di Wagner, paesaggi e forme di cui capiremo il senso solo in seguito, come quello bellissimo della veduta notturna con le due lune. Un romanticismo surreale, fuori tempo, che confonde e sconcerta, lo sventurato spettatore si chiede cosa lo aspetti. In realtà, almeno nella prima parte, ci troviamo di fronte a quella che il regista stesso definisce una commedia: “Per me in un certo senso Melancholia è una commedia, se avessi voluto farne una tragedia, vi avrei spaventati davvero”. E c’è da credergli sulla parola.
Una commedia che inizia dalla fine, con il più classico dei matrimoni, bella gente, ricca e colta, riunita in un castello da fiaba per celebrare il rito sociale della felicità e della fede in un radioso futuro. Tutto finto, naturalmente, ma così discreto e ben orchestrato che si finisce col crederci. L’unico corpo estraneo, in senso letterale, è proprio il più importante, quello della sposa. E’ colpa sua se gli sposi arrivano in ritardo e pian piano emergono la sua fragilità, l’inquietudine, un turbamento angoscioso che si trasforma in una profonda depressione che la rende incapace di vivere. E mai come in questo caso appare appropriato l’uso frenetico della steadycam cui ci ha abituato il metodo dogmatico del regista.
Per fortuna, Justine, la sposa (un’eccellente Kirsten Dunst, premio come miglior attrice al Festival di Cannes) ha una sorella, Claire (interpretata in modo altrettanto esemplare da Charlotte Gainsbourg). Sarà lei a prendersi cura della sorella schiacciata dal male di vivere, cercando di farla uscire dal vuoto profondo in cui sta annegando.
Ma se Justine non sa vivere, è però l’unica che, di fronte alla minaccia di una catastrofe incombente, trova la forza di guardare in faccia la realtà e di affrontarla con piena consapevolezza, anzi quasi con gioia. Gli altri, quelli che sanno vivere, si troveranno a sostenere inermi il fallimento delle loro speranze, razionali o irrazionali che siano, travolti da una paura che non sono in grado di controllare.
Ancora una volta, alla fine, Lars von Trier celebra il suo trionfo. Dopo aver illuso lo spettatore con le grandiose immagini iniziali, dopo averlo strapazzato con la forza del suo disfattismo catastrofico, lo abbandona di fronte ad uno schermo nero, inchiodato ad una poltrona che vibra sotto gli effetti dell’impatto finale col pianeta sterminatore. Unica consolazione, un attimo di serenità trovato grazie ad una ritemprante tintarella di luna, integrale.
                                                                                    

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