Non resta che riconvertire...

TORINO - Un’«anticipazione» di Repubblica del 21 aprile scorso attribuiva alla Fiat un ambizioso piano industriale Fiat-Chrysler da 5,5 milioni di vetture all’anno per il 2015 [2,7 milioni Fiat e 2,8 milioni Chrysler]. Un piano molto vicino, anche senza Opel, ai 6 milioni di auto all’anno che mesi fa Marchionne aveva fissato come obiettivo irrinunciabile per non scomparire in un mercato dell’auto sempre più competitivo.
Questa anticipazione non ha trovato né conferme né smentite nella conferenza stampa che oggi Marchionne ha tenuto di fronte agli analisti finanziari, dove ha invece dovuto ammettere che quest’anno le vendite di auto caleranno di almeno il 30 per cento in Italia e del 15 per cento in Europa. Come sia possibile raggiungere gli obiettivi anticipati da Repubblica in un mercato il cui già oggi c’è dal 30 al 50 per cento di capacità produttiva in eccesso e che per l’anno in corso va incontro a un altro massiccio crollo delle vendite non è stato spiegato. Di piani industriali fantasiosi la Fiat ne ha già prodotti diversi.
Nel quadro delle anticipazioni di Repubblica, l’ipotetica distribuzione della produzione tra i diversi stabilimenti italiani della Fiat nel 2015 dovrebbe essere il seguente: 127 mila vetture a Mirafiori [significa in pratica la chiusura del più grande stabilimento industriale italiano]; 255 mila a Cassino; 250 mila a Pomigliano; 370 mila a Melfi. L’unica cosa certa in questa sarabanda di cifre è la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese.
Che fare? Insistere perché la Fiat continui a produrvi automobili è verosimilmente inutile. Si rischia di trascinare gli operai a uno scontro frontale contro un muro. Pensare che qualcun altro – magari i cinesi; o qualche avventuriero attirato da possibili sussidi statali o regionali – venga a produrre auto in uno stabilimento che ha un sovracosto di produzione di mille euro per vettura è altrettanto improbabile.
Potrebbe funzionare come testa di ponte per una penetrazione cinese nei mercati europei, ma in questo caso, addio indotto.
Oppure potrebbe essere una delle tante truffe con i soldi di tutti, destinata a procrastinare di un anno o due la messa sul lastrico dell’intero comparto: fabbrica e indotto. Il mercato europeo dell’auto non lascia sperare altro. Lo stesso vale probabilmente per autobus, camion e suv.
Non resta che riconvertire. A produzioni che promettano comunque di potersi espandere nei prossimi anni – quale che sia l’andamento congiunturale – e per le quali la Sicilia potrebbe anche fare da testa di ponte per una penetrazione in tutto il bacino del Mediterraneo.
I settori la cui candidatura è più sensata sono efficienza energetica e fonti rinnovabili.
Oltre trent’anni fa la Fiat aveva messo a punto il Totem: un impianto mobile di microcogenerazione ad alta efficienza, funzionante sia a benzina che a gas, basato sul motore della 127. Poi ha lasciato cadere il progetto. Lo ha ripreso l’anno scorso la Volkswagen, che con il motore della golf intende produrre almeno 100mila impianti del genere da installare in condomini, piccole aziende, uffici: serve a produrre elettricità, riscaldamento, raffreddamento, congelamento, sterilizzazione con un’efficienza che si avvicina al 100 per cento.
Perché in Italia no?
In una dimensione maggiore, tutta la tecnologia della micro cogenerazione [fino a 2-3 MW di potenza elettrica], in cui oggi domina l’industria tedesca, nasce dallo sviluppo dei motori marini: fino a trent’anni fa la Fiat aveva degli stabilimenti per la loro produzione [la Grandi Motori] che ha poi abbandonato. Riprenderla potrebbe essere più complicato, ma non irrealistico.
Termini è comunque una fabbrica metalmeccanica e i rotori delle pale eoliche rientrano perfettamente in questa casistica e possono valorizzare la professionalità di molti degli addetti alla produzione della Y10. Diversamente ci si può impegnare nella produzione di massa di pannelli solari, termici e fotovoltaici. Oggi li importiamo quasi tutti. Cambierebbe completamente il genere, ma lo stabilimento è comunque lì, e l’indotto meccanico se ne potrebbe comunque avvantaggiare. D’altronde, a pochi chilometri di distanza [a Bagheria] si sta lavorando per costruire un «polo» delle energie rinnovabili. Niente a che fare tra una fabbrica che rischia la chiusura e un progetto ancora tutto da realizzare che assorbirà comunque ingenti risorse pubbliche? Per entrambi il mercato è alle porte: in Sicilia; nel resto d’Italia; in tutto il Mediterraneo.
Ovviamente non basta enunciare un obiettivo. Bisogna costruire il contesto: cioè il mercato, la tecnologia, i finanziamenti, il coinvolgimento dei lavoratori e del tessuto sociale, la formazione. Alla Fiat non si può certo – né è opportuno farlo – chiedere di impegnarsi nel nuovo business; se le fosse interessato, l’avrebbe già fatto. Ma di cedere lo stabilimento, gli impianti, quel che resta del suo know how, di fornire gratuitamente assistenza tecnica e formazione per la riconversione dei lavoratori, certamente sì.
Al nuovo progetto si deve garantire un mercato sicuro per gli anni del suo avviamento. Lo possono fare, sull’esempio di quello che hanno fatto i comuni toscani per sostenere la riconversione dell’Electrolux di Scandicci ai pannelli solari, centinaia di enti pubblici, sia in Sicilia che nel resto d’Italia, che ne trarrebbero indubbi benefici in termini di efficienza e di risparmio. Molti di questi interventi sono peraltro finanziabili in modalità Esco: un istituto finanziario anticipa in fondi e poi si rifà incorporando i frutti del risparmio in bolletta e gli eventuali incentivi. Per l’ente pubblico l’intervento è gratis, o quasi. Il resto dei fondi necessari alla riconversione può essere anticipato dalle banche con garanzia della Regione, che di denaro ne ha in abbondanza e per lo più lo spreca.
I lavoratori – non solo quelli della Fiat, ma anche quelli dell’indotto – i sindacati e la popolazione del territorio andrebbero coinvolti fin da subito, per renderli consapevole delle potenzialità, dei vantaggi e anche dei rischi del progetto; ma mettendoli di fronte al sicuro fallimento di altre soluzioni. E Termini Imerese potrebbe diventare un caso esemplare
Poi bisogna trovare un imprenditore. Ma l’esempio di Scandicci dimostra che quando ci sono gli impianti, il mercato, i lavoratori e i soldi, qualcuno disposto a «rischiare» – per così dire – si trova sempre. Il problema è solo quello di selezionarlo seriamente.
Guido VIALE per CARTA.ORG

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