Il libro di giugno 2010...




Quel che il futuro dirà di noi
di Paolo FERRERO
Derive e Approdi ed.-2010.

Recensione a cura di Mimmo Porcaro.

L’ultimo libro di Paolo Ferrero ha, tra gli altri, il merito di porre l’ultima (e devastante) crisi del capitalismo come elemento decisivo per la ridefinizione della sinistra: cosa, questa, tutt’altro che scontata e banale. La parte maggioritaria della sinistra, infatti, non sembra essersi ancora accorta della portata della crisi e, in coerenza con l’atteggiamento delle burocrazie europee a cui è quasi inestricabilmente avvinta, ripropone la sua fede cieca nelle virtù del mercato e nella necessità di tenere la politica lontano dalle imprese, lasciando a Tremonti e soci il ruolo di criticare (per quanto retoricamente e inefficacemente) lo strapotere delle banche e delle società finanziarie. Quella parte della sinistra radicale che ha alzato la bandiera della “sinistra senza aggettivi” continua ad ignorare che l’aggettivo “socialista” dovrebbe invece essere orgogliosamente rivendicato, oggi che il capitalismo dimostra di poter sopravvivere solo grazie al “socialismo dei padroni”. Ma anche noialtri non sembriamo ancora pienamente consapevoli del fatto che questa crisi non è affatto un semplice peggioramento delle dinamiche di sempre, ma un vero e proprio cambio d’epoca che, se rende più acuti i rischi, riapre comunque la partita del superamento del capitalismo. Si tratta, insomma, per dirla con Ferrero, di una “crisi costituente” : la destra lo ha capito, presentandosi come vero e proprio “partito della crisi”, capace di utilizzarla per approfondire la frammentazione sociale e la sua gestione autoritaria. La sinistra liberista no, anche perché la forma attuale del capitalismo (in cui capitale industriale e finanziario sono intrecciati come non mai) non sembra poter consentire un’autoriforma progressista del capitale, analoga a quella del “secolo socialdemocratico”. Tocca quindi a noi divenire, a nostra volta, “partito della crisi”, rispondendo ad essa con un lungo lavoro di radicamento sociale e di ridefinizione programmatica.

Una ridefinizione che, e questo è un tratto particolare delle tesi di Ferrero, non può presentarsi come un semplice ritorno all’indietro e deve piuttosto prendere atto delle trasformazioni indotte dal neoliberismo, porsi alla loro altezza e, grazie a questo, combatterle efficacemente. Si tratta dunque di prendere atto dell’irreversibilità della globalizzazione, dell’inscindibilità del nesso fra trasformazione sociale e trasformazione ambientale, della prepotente esigenza di libertà individuale. Questi nodi vengono affrontati, nel libro, con una riproposizione articolata dei temi del “comunismo di società”, ricalibrata sulle trasformazioni degli ultimi decenni. In particolare, ogni proposta di rafforzamento dell’intervento pubblico è presentata come ampliamento di una sfera pubblica non esclusivamente statale (anche grazie alle potenzialità offerte dalla diffusione del sapere e delle associazioni di cittadinanza), ogni estensione del welfare è accompagnata dall’attenzione al diritto all’individualità della prestazione, ogni istanza solidaristica è bilanciata dalla ripresa dell’idea marxiana del comunismo come realizzazione della “proprietà individuale”, ossia della piena possibilità, per ogni individuo, di decidere sulle proprie condizioni di esistenza. La crisi, insomma, come occasione storica per riproporre e contemporaneamente trasformare il comunismo.

Concordo con questo impianto generale, e segnalo che tutte le difficili scelte tattiche a cui siamo e saremo chiamati dovranno essere valutate non solo in base ai momentanei rapporti di forza che esse contribuiranno a costruire, ma anche in base alla loro capacità di misurarsi con la crisi: questa, infatti, non fa sconti e non permette alleanze di corto respiro e piccolo cabotaggio, capaci solo di aprire ulteriori spazi alla destra.

Di tutti questi temi dovremo discutere a lungo. Avanzo, per ora, tre osservazioni critiche.

Per prima cosa: quanto è irreversibile la globalizzazione? Nonostante la persistenza di numerosissimi intrecci produttivi ed informativi, ritengo che la crisi porrà in discussione l’assetto dato della mondializzazione. Se è vero, come Ferrero sostiene, che gli “stati continentali” assumono oggi un’importanza crescente, dobbiamo abituarci a muoverci in un mondo in cui la politica di questi stati intercetterà e modificherà le dinamiche della globalizzazione: in particolare penso che nessuna politica efficace possa venire alla luce se non prende le mosse da una relativa limitazione dei flussi finanziari mondiali (cosa parzialmente accettata, peraltro, dallo stesso Fmi e resa universalmente evidente dall’attacco speculativo contro la Grecia, ossia contro l’Europa).

Inoltre, credo che l’idea del “comunismo di società” da un lato aderisca ad alcuni tratti specifici della società italiana, ed in particolare alla sua forte “densità associativa”, ma dall’altro rischi di non vedere come qui da noi ogni rilancio della sfera pubblica, e persino ogni rafforzamento del ruolo delle associazioni, passi da una contestuale ricostruzione di un apparato di stato degno di questo nome, capace cioè di intervenire con efficacia nella politica industriale e sociale. Imbarbarito dalla DC e dal craxismo, e poi dissolto dal neoliberismo, lo stato italiano è ormai ridotto ad una larva, perso nella divaricazione crescente tra miseria pubblica e ricchezza privata, spesso incapace di assicurare le condizioni minime dell’eguaglianza dei cittadini. Insomma, la democrazia partecipata deve pur avere qualcosa a cui partecipare: se non vi è più un soggetto capace di decisioni pubbliche, non vi sono più decisioni da condividere, controllare o contrastare, e la politica delle associazioni si perde nell’abituale pulviscolo lobbistico.

Infine, il lavoro. Ferrero insiste giustamente sulla necessità di ricomporre il lavoro frammentato, come condizione minima per la ripresa di un’efficace lotta di classe. Contemporaneamente esalta, ed anche qui non si può non concordare, il ruolo della conoscenza, e dunque dei lavoratori della conoscenza, come pilastro su cui costruire sia la democrazia partecipata sia la riconversione ambientale e sociale dell’economia. Ma qui si presenta purtroppo una contraddizione di carattere generale: credo che fra tutte le linee di divisione del mondo del lavoro (uomini/donne, nativi/migranti, garantiti e no) quella tra lavoratori qualificati e dequalificati rischi di divenire via via crescente e decisiva anche sul piano politico, coi primi schierati con un generico progressismo meritocratico e i secondi sempre più attratti dal populismo. Ecco un altro “lascito” del liberismo con cui dobbiamo fare i conti. Qui, forse, l’idea di riunificare tutto il mondo del lavoro attorno alla figura del lavoro dipendente, ribadita da Ferrero, non è sufficiente, perché è proprio qui che la divisione assume più spesso la forma di una differenza nella forma giuridica del lavoro, col lavoro qualificato che tende spesso, e soprattutto nelle sue parti più avanzate, a presentarsi come autonomo. Si tratterà quindi di pensare, più che ad una semplice riunificazione, ad una vera e propria alleanza, ad un patto politico basato su uno scambio tra assunzione di una collocazione di classe e riconoscimento di una specificità giuridica e fiscale. Senza questi accorgimenti, temo che la nostra politica non saprebbe contrastare le ulteriori divaricazioni imposte dalla crisi.

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