Il film di Febbaio 2010...



 IL NASTRO BIANCO 
di Michael Haneke



Recensione a cura di DOMENICO CENA.

In un periodo di relativa calma della stagione cinematografica, mentre sugli schermi spadroneggia “Avatar”, il colossal hollywoodiano in tre D, vale la pena di tornare ad un film uscito già da qualche mese e che forse non ha avuto nelle sale tutto lo spazio che meritava. Si tratta de “Il nastro bianco”, il film di Michael Haneke, vincitore al festival di Cannes 2009.
Haneke non è un autore molto prolifico. In una carriera ormai più che ventennale, ha realizzato sette o otto film, tra cui “Funny Games, girato una prima volta in Germania nel 1997 e ripetuto esattamente uguale, cambiando solamente gli attori e le ambientazioni, dieci anni dopo negli Stati Uniti. Haneke è un regista che porta avanti con estremo rigore e distacco una sua ricerca personale sull’origine e la banalità del male, rifacendosi a maestri del cinema come Bergman e Bresson, o a uno scrittore come Thomas Bernhard, l’inflessibile giudice dei vizi e delle colpe della società austriaca novecentesca.
In questo film, Haneke cerca di ricostruire il clima sociale e morale che precede l’avvento del nazismo in Germania, ponendosi una domanda di tipo diremmo “etico-storica”:chi sono e da dove vengono gli uomini e le donne che, al seguito di Hitler, si macchieranno dei crimini più cruenti e spaventosi che si possano immaginare?
La vicenda si svolge in un villaggio della Stiria, in cui si alternano il bianco glaciale e abbagliante, da fiaba, di una campagna quasi sempre ricoperta di neve e il buio degli interni delle case, della scuola e della chiesa, dove si celano segreti solo intravisti, o forse sognati. Siamo all’immediata vigilia della prima guerra mondiale, e la pace della piccola comunità è turbata da una serie di avvenimenti inspiegabili e sempre più violenti, dall’iniziale caduta da cavallo del medico, causata da un filo invisibile che qualcuno ha legato agli alberi ai due lati della strada, alle sevizie sui più deboli e indifesi e alla morte. Inizia così una ricerca, condotta dal giovane maestro del villaggio, destinata però a rimanere incompiuta. E non perché non si riesca a individuare i responsabili, anzi,   i colpevoli sono lì davanti ai nostri occhi, identificati e quasi bollati dalla loro innocenza, sono quei bambini biondi e dallo sguardo dolce e malinconico che vediamo  mentre si recano a scuola, si aggirano in piccoli gruppi per le strade del paese, o cantano con voci celestiali nel coro della chiesa. Il fatto è che nessuno tra gli adulti ha veramente intenzione di capire, di guardare sotto la patina di normalità che ricopre lo scorrere apparentemente tranquillo della vita del villaggio.
A parte il maestro, come si diceva. Seguendolo da lontano (Haneke usa delle inquadrature quasi sempre frontali e a una certa distanza dai soggetti) e guidati dal gruppo dei ragazzi, riusciamo ad entrare nella casa del medico per scoprire tracce di sevizie e abusi sessuali, o nella residenza del barone, una specie di feudatario che governa il villaggio con metodi a metà strada tra il paternalismo e lo sfruttamento più bieco, per sorprendere anche qui un’autorità ipocrita, dura e insieme impotente.
Ma è nella casa del pastore che emergono le contraddizioni più rovinose. Forte della cultura e dell’autorità che gli deriva dai sacri testi e dall’etica del protestantesimo, il pastore persegue senza cedimenti la missione di educare i figli all’obbedienza incondizionata, stroncando e castrando ogni minimo accenno di indipendenza, vigore e originalità. Ottenendo in cambio un misto di atterrito rispetto, risentimento, malafede e odio non a lungo represso. Emblematico in questo senso il gesto della figlia maggiore del pastore, che infilza con le forbici il canarino che il padre tiene in una gabbietta sulla finestra del suo studio e lo mette sulla scrivania disposto a forma di croce.
Naturalmente, il passato è lo specchio del presente.

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