Il film di Aprile...

                                           
                                                     
" J. Edgar "
 di Clint Eastwood
 Recensione a cura di Domenico Cena.
Superati brillantemente gli ottant’anni, e con oltre trenta film alle spalle, il giovane Clint continua senza  cedimenti la sua rigorosa investigazione sull’America, indagandone in profondità il passato, la società dell’oggi e le prospettive future. Così, dopo  due film “storici” come  Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, in cui analizzava un episodio della seconda guerra mondiale da due punti di vista diversi, e con molti riferimenti all’attualità naturalmente, negli ultimi film Eastwood pare voler privilegiare due aspetti particolari della sua ricerca.
Da un lato, con film come Gran Torino e Hereafter,  sembra voler sondare le possibilità di sopravvivenza della società americana di fronte ai possibili e probabili sconvolgimenti cui va incontro, dall’altro, con Changeling e Invictus, ragiona sul potere, visto come strumento di repressione e annientamento dell’individuo, in un discorso quasi foucaultiano, o come possibilità e dovere di partecipazione del singolo a un cammino volto al riscatto e al rinnovamento di una società e di una nazione intera.
L’ultimo film della saga easwoodiana, J. Edgar, si potrebbe inserire in questo secondo ambito, pur con una serie di riserve, poiché una delle principali caratteristiche del regista americano e quella di sorprendere e spiazzare i suoi ammiratori, a cominciare da quelli che pensano di conoscerlo ormai perfettamente.
J. Edgar è la storia di John Edgar Hoover, uno dei miti fondatori dell’America attuale, l’inventore dell’FBI, l’uomo ombra del potere americano, colui che ne ha tessuto le trame nascoste per circa cinquant’anni e sotto ben otto presidenti, da Coolidge fino a Nixon, passando per gente come Roosevelt (che non amava particolarmente) e Kennedy. Ossessionato dal timore della minaccia comunista, angosciato dal tentativo di tenere tutto sotto controllo, di sorvegliare, identificare e reprimere tutto ciò che non rientri nell’ambito del prevedibile e dell’ordine costituito, Hoover  può essere considerato senza dubbio come una delle figure in assoluto più rappresentative del Potere con la lettera maiuscola.
Il ritratto che ne fa Eastwood è complesso e multiforme, frutto di punti di vista diversi e non tutti conciliabili. E soprattutto, Eastwood non sceglie né il punto di vista moralistico, né quello “psicoanalitico”, cioè il tentativo di spiegare i comportamenti sociali con i deliri e  le paranoie individuali. O almeno, non sceglie un unico sistema interpretativo. Così vediamo l’amore tormentoso di Hoover per la madre assillante e castrante, la sua omosessualità, negata o celata che sia, il  bisogno maniaco di registrare e archiviare ogni cosa, di nascondere il vero se stesso con  la negazione di tutto quanto c’è di autentico e genuino in lui, l’incapacità di avere dei rapporti profondi con gli altri. Ma anche il desiderio di apparire, la ricerca della notorietà e della fama, il senso del dovere e del servizio dello stato, il patriottismo, unito a una diabolica capacità di ricatto e di estorsione per ottenere favori e privilegi.
Alla fine non c’è un vero ritratto, la biografia che lo stesso Hoover, ormai anziano, detta ai suoi giovani collaboratori non trova un suo senso. Anche gli episodi che a prima vista appaiono inconfutabili vengono smentiti, come ad esempio il ruolo di primo piano giocato dal capo dell’FBI nella cattura dell’assassino del figlio di Lindbergh: falso anche quello.  E forse sta proprio qui uno dei  significati di fondo del film: il potere è una maschera, quella del bravissimo Di Caprio nei panni del vecchio Hoover, che nasconde il nulla, ma che condiziona e grava senza scampo e senza alternative.

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